Meloni, la mafia e la retrotopia dei garantisti alle vongole

Detto questo, il vero problema è un altro: si chiama Carlo Nordio. All’indomani della cattura del “Vice Capo dei Capi”, resa possibile solo grazie agli ascolti telefonici e ambientali (come hanno confermato tutti i magistrati coinvolti, dal capo della Procura di Palermo De Lucia al Procuratore generale Lia Sava), il Guardasigilli rilancia la sua battaglia contro le procure. In Parlamento parla addirittura di “rivoluzione copernicana contro l’abuso delle intercettazioni”, e conclude con la solita retorica un po’ fascistoide ma coerente con lo Zeitgeist: “Andremo avanti fino in fondo, non vacilleremo, non esiteremo”.

Prendiamo atto della successiva precisazione: il giro di vite sulle intercettazioni non riguarderà i reati di mafia e di terrorismo. Bontà sua, ci mancava solo il contrario. Resta però una gigantesca mucca nel corridoio (per dirla in bersanese) che Nordio finge di non vedere. Spesso i traffici della criminalità organizzata vengono scoperti grazie alle indagini sui cosiddetti reati “spia” o “satelliti”: corruzione, abuso d’ufficio, frode, turbativa d’asta. Se si vieta le intercettazioni per questi reati, diventa più difficile o addirittura impossibile scoprire quelli di mafia. A Nordio, in questi giorni, hanno spiegato l’ovvio tutti i Pm d’Italia. Quelli in servizio, dal capo della Procura Nazionale Antimafia Giovanni Melillo al Capo della Procura di Roma Lo Voi. Quelli passati ad altri incarichi, da Nino Di Matteo a Alfonso Sabella. Quelli in pensione, da Giancarlo Caselli a Giuseppe Ayala. Niente da fare. Il Guardasigilli, come ha promesso, non vacilla, non esita.

È un guaio per il Paese. È un guaio per il governo. C’è da chiedersi, come nel caso di Ignazio Larussa presidente del Senato, “se questo è un ministro”. Persino Salvini, che tra Nave Diciotti e milioni spariti della Lega non è amico delle toghe, capisce che la guerra con la magistratura fa solo danni. Ma Nordio rilancia. Smentisce di volersi dimettere, e assicura di essere “in perfetta sintonia con la premier”. A questo punto la domanda è d’obbligo. Davvero Meloni è d’accordo con le sortite sguaiate del Guardasigilli e considera la sua sgangherata “pseudo-riforma” delle intercettazioni una priorità del Paese? Non riesco a crederlo. Ho riletto il suo discorso programmatico del 25 ottobre alle Camere. Non ho trovato traccia della parola “intercettazioni”. Ho letto invece che Meloni ha cominciato “a fare politica a 15 anni, il giorno dopo la strage mafiosa di Via D’Amelio, spinta dall’idea che la rabbia e l’indignazione andassero tradotte in impegno civico”. Ho letto che intende affrontare “il cancro mafioso a testa alta”. E ho letto che, per una “giustizia che funzioni”, gli obiettivi da raggiungere sono “una effettiva parità tra accusa e difesa”, “una durata ragionevole dei processi”, “il principio fondamentale della certezza della pena”, un “nuovo piano carceri”, la fine delle “logiche correntizie che minano la credibilità della magistratura”. Questo è tutto.

Dunque, perché adesso Nordio cambia “l’Agenda”? All’improvviso, senza una ragione plausibile, ripartono polemiche astruse sulla sicurezza, in un caos pan-penalistico in cui tutte le vacche sono nere. Il ministro degli Interni Piantedosi dichiara in tv che le mafie sono sempre più attive nel riciclaggio del denaro sporco: peccato che nella legge di bilancio il governo gli faccia un regalino, alzando il tetto al contante a 5 mila euro. Si inneggia al “carcere duro”, mescolando il 41 bis e l’ergastolo ostativo: peccato che il governo abbia preso in giro la Consulta, infilando nel decreto contro i rave-party una sfilza di norme-catenaccio che rendono impossibile qualunque forma di redenzione del reo. Le intercettazioni tornano ad essere “un’emergenza nazionale”, per impedire “la gogna mediatica”. Nordio parla da Marchese del Grillo, come scrive Caselli. O da uomo della strada, non certo da ex pubblico ministero. Non sa che il decreto legislativo Gentiloni-Orlando del 2017 ha già introdotto vincoli rigorosi sulla pubblicazione delle intercettazioni. Non sa che da allora esiste il cosiddetto “archivio riservato”, nel quale i giudici hanno l’obbligo di depositare quelle irrilevanti, quelle non utilizzabili ai fini delle indagini e quelle che riguardano terzi non coinvolti. Non sa che tutte le altre che talvolta escono sulla stampa sono atti pubblici, depositati nelle cancellerie a garanzia delle parti del processo.

Come se non bastasse, in questa crociata da “garantisti alle vongole” si inserisce un vice-Nordio, il Fratello d’Italia Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, che annuncia un provvedimento per restringere la pubblicazione delle intercettazioni sui media. C’è voglia di un’altra legge-bavaglio per i giornalisti, azzardo già fallito ai tempi del secondo governo Prodi del 2007, ministro Clemente Mastella, e del quarto governo Berlusconi del 2011, ministro Angelino Alfano. Tentativi goffi, ma pericolosi, di comprimere due diritti garantiti dalla Costituzione: quello dei cittadini ad essere informati, quello dei giornalisti di informare. Vecchi mezzucci illiberali di una stagione lontana e mefitica, quando il potere sentiva il bisogno di proteggere se stesso rifugiandosi nell’opacità, e usando la privacy dei cittadini come una foglia di fico. Non posso e non voglio credere che Giorgia Meloni, nemica della mafia e amica della legalità, ci voglia regalare anche questa “retrotopia” anti-democratica.

LA STAMPA

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