Meloni, retromarcia su Roma in 100 giorni

Ilario Lombardo

ROMA. E se l’underdog fosse già diventato il watchdog dell’Europa? Tanto per restare all’anglicismo scelto da Giorgia Meloni il giorno della fiducia in Parlamento: la sfavorita che diventa il cane da guardia dei conti e degli equilibri di Bruxelles. A ripercorrere i primi cento giorni del governo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia, che cadranno il 30 gennaio, la parabola sembrerebbe proprio questa. Nulla di nuovo. Tutto già visto in Italia. Dove la marcia in più di chi entra nel palazzo di governo è la retromarcia, e i fiammeggianti propositi di quando si è all’opposizione si spengono, uno dopo l’altro.

La trasformazione di Meloni, però, appare, in qualche modo, più fulminea di altre. Una mutazione condotta tra mille sospiri di sollievo a Bruxelles e a Washington. Ma che in patria, l’amata Nazione non la N maiuscola della premier, deve essere misurata con la spietatezza dell’opinione pubblica sul medio periodo.

Questi cento giorni di giravolte e ripensamenti cominciano con un battesimo speciale, sulla giustizia. Sull’ergastolo ostativo. Durante il governo Draghi, Meloni si oppose al compromesso raggiunto dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Troppo poco, disse, astenendosi al momento del voto: troppo poco per chi a destra aveva fondato la propria storia sull’emozione di rabbia provata di fronte alla strage mafiosa di Capaci. Passano pochi mesi, passano le elezioni, Meloni siede a Palazzo Chigi. Prima conferenza stampa, primo passo indietro. Il governo di FdI dà il via libera alla riformulazione dell’ergastolo ostativo che FdI aveva respinto. Lo fa per scelta obbligata, per fretta: dopo pochi giorni sarebbe scaduta la tagliola imposta al Parlamento dalla Consulta.

È solo l’inizio. In quelle prime ore di governo sembra che a preoccupare più di ogni cosa la destra siano gli sballati dei rave. Nel suo primo decreto, Meloni fa inserire il “liberi tutti” per i medici no-vax. Una promessa mantenuta, mentre è costretta a ritirarsi quando prova a eliminare l’obbligo di mascherina nelle strutture sanitarie. Resta invece granitica, e lo è ancora, sul sostegno militare all’Ucraina, nonostante i gorgheggi polemici e le simpatie putiniane dei due alleati, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Passare dall’opposizione al governo è ormai come traslocare in un’altra dimensione, dal populismo alla realtà, dove i limiti – finanziari e diplomatici – mettono subito alla prova le bellicose parole di un tempo. La sovranista Meloni che non voleva le trivelle nei mari d’Italia («un regalo alle lobby») è diventata la principale sostenitrice del gas patrio già durante il discorso programmatico: «Abbiamo giacimenti che è nostro dovere sfruttare appieno». Non c’è dubbio che serva a sfamare il fabbisogno nazionale e a liberarsi della dipendenza dal metano della Russia, ma «la qualità – parole della leader di pochi anni fa – del nostro ambiente da salvaguardare»? La risposta è facile. «Sono cambiate le condizioni».

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