l nuovo papato di Francesco, dopo la morte di Benedetto XVI

di Massimo Franco

Ieri per la prima volta, dopo quasi dieci anni di coabitazione anomala, Bergoglio si è trovato proiettato in un pontificato solitario, dunque «normale»

In piazza San Pietro, ieri mattina, è cominciato il nuovo papato di Francesco.

Quello precedente, accompagnato e a tratti condizionato dall’ombra di Benedetto e della sua rinuncia, si è chiuso il 31 dicembre scorso con la sua morte.

Le esequie di Joseph Ratzinger non sono state soltanto l’omaggio solenne e sobrio, per alcuni anche troppo, al Papa emerito. Hanno proiettato per la prima volta davanti al mondo Jorge Mario Bergoglio nel mare inedito, per lui e per la Chiesa, di un pontificato solitario e dunque «normale», dopo quasi dieci anni di coabitazione anomala.

E la domanda che spuntava nella folla né grande né piccola, tra il clero numeroso, partecipe e un po’ ingrigito, è quella destinata a rimbalzare a lungo nei prossimi mesi.

E cioè se il Pontefice argentino riuscirà a rappresentare e convincere anche l’«altra Chiesa», che non ha mai dimenticato il «suo» Papa tedesco; se riuscirà a dimostrare di essere in grado di unire tutti, facendo propri alcuni dei temi, degli spunti teologici, dello stile lasciati in eredità da Benedetto.

È una sfida non facile. Ha come sfondo tensioni diffuse e finora contenute. Sconta una confusione e un disorientamento difficilmente negabili, che certamente preesistevano alla rinuncia di Ratzinger e all’arrivo di Francesco.

Ma in questo quasi decennio sono cresciuti e per alcuni aspetti sembrano perfino esacerbati: soprattutto nelle file ecclesiastiche. Qualcuno non solo scommette su una conflittualità accentuata nel mondo cattolico, una volta abbattuto l’argine moderatore del Papa emerito dal suo Monastero in cima ai giardini vaticani. Sotto sotto, sembra pronto ad alimentarla, convinto che una resa dei conti non sia semplicemente inevitabile ma quasi benefica.

Non è una predisposizione limitata alla nebulosa del cattolicesimo tradizionalista, peraltro diviso al proprio interno.

La tentazione serpeggia anche tra alcuni dei sostenitori di Bergoglio, che hanno cercato di spingerlo, senza riuscirci, a fare riforme radicali senza valutarne le conseguenze dirompenti.

Le prime prese di posizione del prefetto della Casa Pontificia, monsignor Georg Gänswein, l’uomo più vicino a Ratzinger, mostrano la volontà di sottolineare la sofferenza silenziosa che avrebbe segnato in questi anni il Papa emerito; e probabilmente anche la propria.

Il rischio di una strumentalizzazione della sua difesa di Benedetto è evidente.

Sarebbe altrettanto arrischiato, tuttavia, un confronto tra «il partito del Monastero» e chi oggi ritiene di avere un potere più forte perché senza sponde, argini, coscienze critiche. In realtà, la Chiesa e il papato appaiono indeboliti e in ritardo rispetto alle domande di spiritualità e di religiosità; e a un’esigenza di unità tuttora insoddisfatta. Eppure, senza una riconciliazione riesce difficile immaginare non soltanto la possibilità di governare un’istituzione così complessa, ma di consolidarne e accrescerne l’influenza.

Un giorno qualcuno valuterà la mole di energie sprecate in scontri sfibranti tra fazioni cattoliche: un ossimoro rispetto a una religione che cerca di comprendere e armonizzare tutto, con l’ambizione di essere una «società perfetta».

E se Ratzinger lascia un testamento, per quanto controverso a causa della rinuncia, al fondo non è solo quello del fine teologo. È soprattutto la ricerca prioritaria dell’unità, sublimata per paradosso negli anni del Monastero; e nel rapporto, non si sa se definire fraterno o paterno, con il suo successore: un rapporto di ubbidienza leale e rispettoso.

C’è chi vede perfino nella semplicità estrema dei funerali di ieri, nella decisione del Vaticano di non indire una giornata di lutto, nella parsimonia degli inviti alle autorità di Stato, il segno di una sorta di inconscia rimozione dell’anomalia di Benedetto.

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