Una riforma con troppi scogli

Marcello Sorgi

Si poteva pensare che, finita la campagna elettorale che l’ha vista vincitrice il 25 settembre e subito dopo – prima donna a Palazzo Chigi – alla guida del governo di destra-centro scelto dagli elettori, Meloni avrebbe lasciato cadere la riforma presidenzialista inserita al centro del programma della coalizione. E non perché non ci credesse, ma perché, come ha spiegato ieri nella sua prima conferenza stampa di fine anno, appena entrata nella famosa “stanza dei bottoni”, s’è resa conto che l’Italia ha problemi più urgenti, dalle conseguenze della guerra in Ucraina sull’economia, alla crisi energetica, al Covid non del tutto domato, alle grandi crisi bancarie e aziendali. Invece no, a domanda precisa sull’argomento la premier ha risposto che il presidenzialismo intende realizzarlo, e anche presto.

Eppure le riforme istituzionali negli ultimi quarant’anni si sono rivelate impossibili, e non hanno portato bene a qualcuno dei suoi predecessori: quand’anche il Parlamento è riuscito ad approvarle, il popolo, nei referendum che sono seguiti (2006, 2016), le ha bocciate, con notevole danno politico per chi (Berlusconi, Renzi) le aveva proposte. Meloni tuttavia vuol provarci lo stesso. Ha rivelato che il lavoro del ministro competente, Casellati, è stato più difficile del previsto già nel confronto interno alla maggioranza, destinato a concludersi entro gennaio. Da febbraio il governo intende dialogare con l’opposizione sul modello francese, che finora ha incontrato più consensi. Insomma, in un modo o nell’altro, il 2023 sarà l’anno della riforma presidenziale, anche se per arrivare ad approvarla con le regole previste dall’articolo 138 della Costituzione, non a caso definito “catenaccio”, un anno non basterà.

Introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, infatti, comporta problemi molto seri, come i tecnici del ministero delle Riforme Istituzionali stanno constatando. Perché si tratta di mettere mano a tutto l’impianto della Carta costituzionale, fondato su pesi e contrappesi che verrebbero radicalmente mutati dall’ingresso in scena di un vertice dello Stato scelto direttamente dagli elettori. E di ridisegnare i contorni dei poteri del Capo dello Stato, fin qui elastici, tanto che Amato, tra i nostri costituzionalisti, li ha definiti “a fisarmonica”, destinati cioè ad allargarsi secondo la gravità delle crisi, ma rigidamente distinti da quelli di “indirizzo politico”, di guida del Paese, riservati al capo del governo.

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