La cautela, poi le sfide

di Massimo Franco

Giorgia Meloni difende i propri provvedimenti e rifiuta l’idea di «sopravvivere», prende le distanze dalle radici del fascismo ma senza rinnegare la sua appartenenza a un Msi nato dalle ceneri di quel regime

Dire che «ha funzionato la staffetta» con Mario Draghi a Palazzo Chigi è una frase impegnativa. Evoca un passaggio delle consegne marcato dalla continuità tra la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni e l’ex presidente della Banca Centrale Europea: proprio quello che le opposizioni più oltranziste le imputano come un peccato imperdonabile. Eppure, sebbene la distanza tra l’esecutivo tecnico-ecumenico di Draghi e quello politico di destra dell’attuale premier appaia abissale, la manovra finanziaria approvata in queste ore riflette almeno in un punto una continuità.

Risponde ai criteri indicati dalla Commissione europea e rassicura i mercati finanziari. Almeno per adesso. Per il resto, le misure sono fortemente condizionate dall’emergenza dei costi dell’energia e della guerra russa contro l’Ucraina: problemi oggettivi, che però rischiano sempre di diventare alibi. Non a caso, nella maratona di tre ore con i giornalisti, ieri Meloni ha soprattutto giocato in difesa sui provvedimenti presi dalla sua maggioranza. Ha scelto di attaccare, invece, parlando del futuro della legislatura e proiettando il governo in un orizzonte di cinque anni.

Sa che i risultati andranno valutati su tempi relativamente lunghi. Se l’economia reggerà il ritmo dell’anno che finisce, le prospettive di durata e di successo si consolideranno. In caso contrario, non solo la tenuta della maggioranza ma quella del Paese potrebbero incrinarsi. L’insistenza con la quale la premier rifiuta l’idea di «sopravvivere» soltanto lascia intuire una scommessa senza subordinate: una sorta di «o la va o la spacca» che sembra non prevedere, in teoria, compromessi al ribasso.

In teoria, perché poi riaffiora ad esempio il fantasma di uno scostamento di bilancio: seppure come decisione da prendere con mille cautele. Viene riaffermato il «no» all’utilizzo del Meccanismo europeo di stabilità, il Mes: scelta che appare discontinua, almeno in linea di principio, rispetto al governo Draghi. E rimane l’incognita di alleati per il momento decisi a seguire la strategia di Palazzo Chigi; ma resi inquieti dal ridimensionamento che subiscono a ogni sondaggio. «Mi fido dei miei alleati al governo», assicura Meloni. «I miei tempi coincidono con i loro».

Probabilmente è vero, e continuerà a esserlo fino a quando non emergeranno vere difficoltà. Primo, perché il sistema dei partiti è ancora in piena evoluzione. Secondo, perché le implicazioni di una crisi economica e sociale non si sono ancora manifestate interamente. In più, c’è da chiedersi che cosa succederà se davvero Meloni deciderà di accelerare sulle riforme istituzionali: tema delicato e controverso. Rilanciare il modello presidenzialista come «priorità» prefigura una riscrittura profonda della Costituzione e della repubblica parlamentare.

Cambia gli equilibri tra i poteri. E, gettando un’ombra di scetticismo, peraltro giustificata, sulla creazione di una commissione bicamerale ad hoc, temendo che si perda tempo, la premier chiede una condivisione delle «regole del gioco». Ma viene il sospetto che, se questo non avvenisse, cosa probabile, bisognerebbe ricorrere a un referendum popolare che potrebbe dividere il Paese più di quanto lo sia oggi. Eppure, l’adesione ai valori incarnati dalla Carta fondamentale è ribadita.

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