La questione morale da Berlinguer alla “Ditta”

Ha ragione Lucia Annunziata: al di là degli errori che ha commesso, è da Enrico Berlinguer che bisognerebbe ripartire. Quello del Comitato centrale del giugno ’74 («si metta fine ai finanziamenti occulti, agli intrallazzi, alle ruberie…»). Quello del discorso in Parlamento del febbraio ’76 («basta col sottogoverno, il clientelismo, le spartizioni, le commistioni tra potere politico e potere economico…»). Quello dell’intervista a Eugenio Scalfari del luglio ’81 («I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela… Sono federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto boss…»). Tutto quello che la sinistra ha smarrito sta esattamente qui, in queste parole del suo leader più carismatico e più rappresentativo.

Se oggi il Pd finisce negli scandali come qualunque altro partito non è solo perché la carne è debole, l’occasione fa l’uomo ladro e via banalizzando nel gorgo dei luoghi comuni che parlano a tutti ma non dicono niente. Ma è perché ha ceduto ai suoi tre “ismi” più imperdonabili. Il “governismo”: mosso da un senso assai lato della responsabilità, nell’eterna crisi di sistema del Paese il partito si è prestato a qualunque kamasutra pur di garantire stabilità, preferendo governare con le idee degli altri piuttosto che andare all’opposizione con le sue. L’“elitismo”: la permanenza nel Palazzo, nelle istituzioni e nelle amministrazioni, lo ha mutato in establishment, autosufficiente e autoreferenziale, fino a fargli recidere le sue antiche radici dal blocco sociale di riferimento e a spingerlo a piantare le nuove nelle nicchie elettorali acculturate e nelle Ztl delle grandi città. Il “correntismo”: governare i territori, dall’alto, ha moltiplicato nomenklature e centri di potere autonomo, sciolti da un corpus di ideali condivisi e riaggregati sulla mera distribuzione di posti, liste, candidature.

I soldi hanno fatto il resto. Ed ha ancora più ragione Annunziata a fissare un evento-simbolo, dopo il quale nulla è stato più come prima. Il vertice mondiale del novembre ’99 a Firenze, sul “Riformismo del XXI Secolo”, segna davvero una svolta, nel rapporto tra la sinistra e il capitalismo, e dunque tra la sinistra e il denaro. Entrata finalmente in prima persona nella stanza dei bottoni, senza più patronage post-democristiane (vedi Romano Prodi), la sinistra di Massimo D’Alema declina insieme a Clinton, Blair, Schroeder, Jospin e Cardoso il nuovo manifesto del “Rinascimento occidentale” (quello saudita sarebbe arrivato ventidue anni dopo) e del Riformismo Globale. La Terza Via di Anthony Giddens prova a riscrivere il patto sociale, cercando una strada alternativa tra la socialdemocrazia statalista e la dottrina neoliberista, fondata sulla globalizzazione e sulla società aperta, sull’alleanza tra Stato e mercato, sull’uguaglianza delle opportunità, sulla tutela dinamica dei diritti. Per fare tutto questo, soprattutto in Europa, la sinistra di governo deve per forza imparare a gestire il denaro, che dunque assume un’importanza che va quasi al di là del suo valore d’uso. Diventa Instrumentum regni. E poi anche way of life.

Se all’estero fanno scuola la montagna di dollari guadagnata da Blair in Medioriente e le colossali fortune lucrate da Schroeder ai vertici della putiniana Gazprom, in Italia il dalemismo ha un ruolo cruciale. Non è solo l’orgoglio per le scarpe da un milione di lire o le vacanze su Ikarus. È anche il realismo col quale l’allora premier ti mostrava le lettere dell’“amico Tony”, che chiedeva al governo di Roma di far partecipare le aziende inglesi alla privatizzazione dell’Acquedotto Pugliese. «La politica è anche questo», ripeteva il Lider Maximo. E non aveva torto. Il problema è che poi la politica è spesso diventata solo questo. Praticata da figure e controfigure sempre più “emancipate” e spregiudicate, si è ridotta ad affarismo. Dall’Opa su Telecom dei “Capitani coraggiosi” al lobbing in conto Qatar sulla vendita della raffineria Lukoil di Priolo il passo è stato troppo breve. E non vale solo per D’Alema. Per Matteo Renzi il passo dalla riforma delle banche popolari alle conferenze strapagate a Riyad è stato ancora più breve. Nulla di penalmente rilevante, come si dice. Ma qualcosa di deludente, questo sì. Se tutta la gloria passata finisce solo in consulenze, a che è servita la politica?

In teoria, a rileggerlo oggi non c’era quasi nulla di sbagliato in quel Manifesto dei Riformisti, a parte il suo velleitarismo. Diciamo che ha fallito la pratica. Qualcuno ha interpretato in senso troppo letterale “la Ditta” cara a Pierluigi Bersani. E aggiungiamo che tutto questo ha finito per contaminare anche la sinistra radicale e pulviscolare. Ho ritrovato una strepitosa intervista di Concita De Gregorio a Paola Natalicchio, candidata di Leu nella sconfitta del voto 2018. Diceva già tutto: «Abbiamo imbarcato i cattivi sulla barca dei buoni. E siamo diventati una zattera… Siamo un mix di nepotismo e dinosauri… O provavamo a fare Podemos, o facevamo l’accordo con loro, con “la Ditta”… Alla fine siamo diventati una sinistra di pulci con la tosse…». Dopo La Torre, dopo Berlinguer, cos’altro rimane “di cotanta speme”?

LA STAMPA

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