La campagna elettorale e gli errori da matita blu in Italia (e all’estero)

di Francesco Verderami

Da destra e da sinistra scivoloni e precipitose precisazioni. Il tema è la scomparsa delle forme che da sempre regolano i rapporti partitici e istituzionali nella fase della contesa elettorale

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È stata una campagna elettorale sgrammaticata, zeppa di errori da matita blu.

In due mesi di comizi il campionario di strafalcioni e di affannose precisazioni ha coinvolto leader di partito e rappresentanti delle istituzioni, dentro e fuori i confini nazionali. Nelle ultime ore poi è stato un florilegio. A Roma, Berlusconi si è lanciato in una sconcertante ricostruzione del conflitto ucraino, spiegando che Putin voleva arrivare a Kiev solo per insediare «un governo di persone perbene al posto di Zelensky». Tranne correggersi l’indomani, dicendo di aver riportato «da giornalista» opinioni altrui, quasi simili a quelle dell’ambasciatore russo.

A Bruxelles, come non fossero bastate le inusuali interviste di membri della Commissione europea sulle elezioni italiane, al limite dell’ingerenza, anche von der Leyen è scivolata su una frase costruita come un avvertimento a Meloni e a chi intendeva votarla. Perciò è stata costretta a una contorta spiegazione, visto le polemiche suscitate. Se la candidata di centrodestra a Palazzo Chigi ha atteso la precisazione prima di glissare sulle parole di von der Leyen, è perché — come spiega un dirigente di FdI — «dopo il 25 settembre arriverà il 26. E sarà con la presidente della Commissione che dovremo trattare sul Pnrr, la Finanziaria, l’energia, l’immigrazione…».

Ma il punto non è questo. Il tema è la scomparsa delle forme che da sempre regolano i rapporti partitici e istituzionali nella fase della contesa elettorale: è come se si fosse smarrito l’abecedario della politica. Se non è un fenomeno di analfabetismo di ritorno, è quantomeno il segno di un’impreparazione collettiva davanti al precipitare verso le urne. Un evento che ha spiazzato (quasi) tutti in Italia e in Europa. Questa è la tesi sostenuta da Giorgetti, che da ministro aveva ricevuto i maggiori fondi d’investimento e che ad alcuni dirigenti leghisti ha raccontato come «nessuno mettesse in preventivo l’uscita di Draghi»: «Davano per scontato un dato immutabile. E la crisi del governo, accaduta in modo improvviso, ha prodotto uno choc anche a livello internazionale».

A livello nazionale si è visto, se possibile, di peggio. Nel giro di un paio di settimane a sinistra sono saltate due alleanze: il campo largo (tra Pd e M5S) e il campo più stretto (tra Pd e Azione), nonostante l’accordo fosse stato ufficializzato. Letta, siglata a quel punto l’intesa con i soli Bonelli e Fratoianni, si è affrettato ad avvisare che «con loro però non farò il governo». Calenda, dopo un anno trascorso a dire «mai con Renzi», ha impiegato poche ore per stringere il patto con Iv. Berlusconi aveva annunciato che il centrodestra avrebbe scelto il candidato premier «dopo il voto», tranne poi rimangiarsi tutto per la reazione di Meloni.

Anche sui tempi, che in politica rappresentano un fattore importante, si assiste a un totale scollamento dalle regole. Nel Pd, per esempio, il congresso si è aperto prima ancora della chiusura delle urne: l’altro giorno il segretario si era appena espresso sull’impossibilità di riallacciare un dialogo con M5S dopo le elezioni, e la giovane Schlein — incoronata dal Guardian come l’astro nascente dei Democratici — rilasciava un’intervista a Repubblica per dire che «dopo le elezioni dovremo dialogare con i grillini». Il governo Meloni non è ancora nato e il Cavaliere per la seconda volta ieri ha minacciato di non farne parte se ci fossero «distonie sull’Atlantismo».

Persino sugli accordi internazionali la politica nazionale è riuscita a fare delle figuracce. L’altro ieri il ministro della Difesa Guerini si è recato da Zelensky per assicurare che l’Italia «con qualsiasi governo» terrà fede al patto con Kiev. Non era ancora finito l’incontro che le agenzie battevano le tesi giustificazioniste di Berlusconi su Putin e l’attacco di Conte a Draghi per aver «seguito la linea sbagliata di Washington e Londra sul conflitto». D’altronde l’ex premier è capace di smentirsi nel giro di poche ore, se è vero che giorni fa si è mostrato prima «orgoglioso» per l’avanzata degli ucraini contro i russi e poi si è detto contrario a un nuovo invio di armi alla resistenza.

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