Il futuro della scuola nel silenzio dei partiti

Sono proprio queste due premesse irreali che a loro volta costringono la scuola e chi vi insegna — anche contro ogni loro volontà — a imboccare una delle due strade seguenti, entrambe negative. O cominciare ad esercitare già nelle sue aule un vaglio delle competenze effettive degli alunni, delle loro vocazioni e attitudini, con il solo strumento a disposizione che è quello della bocciatura: in tal modo esponendosi però all’accusa di far assumere alla scuola un connotato che può facilmente essere interpretato come un connotato classista; ovvero la strada consistente nell’adottare il criterio della più larga longanimità e cioè di fatto promuovere sempre tutti salvo casi rarissimi. La quale strada — inutile dirlo — è proprio quella presa da tempo pressoché dovunque: prova ne sia che all’esame di licenza sia media che liceale la percentuale dei promossi sfiora ormai sempre il cento per cento. Un dato apparentemente ultrapositivo che però contrasta davvero singolarmente con il fatto che poi di questi promossi oltre il 20% abbandona l’università dopo il primo anno dall’iscrizione e che alla laurea non arriva neppure la metà delle matricole.

La scuola italiana va dunque riorganizzata profondamente pensando a due tipi diversi di sbocchi, cioè a due tipi diversi di studi superiori. E cioè, sull’esempio tedesco, a due tipi diversi di università, ognuno punto di arrivo di due tipi diversi di percorsi scolastici. Un’università che prepara e abilita essenzialmente solo alla ricerca e all’insegnamento e quindi con un taglio disciplinare dal forte carattere teorico, e che quindi è l’unica a rilasciare un diploma di dottorato; ed un’università di scienze applicate che invece prepara in maniera specifica all’immediato esercizio professionale nel campo dell’ingegneria e architettura, della medicina di base, della tecnologia, del design, della formazione, delle scienze sociali e della comunicazione ecc., servendosi di docenti inseriti da tempo nelle relative professioni e stabilendo forti legami con le attività produttive e professionali connesse ai vari settori.

È evidente che un tipo siffatto di università duale presuppone da un lato una diversificazione del ciclo scolastico già dopo 7 -8 anni dal suo inizio e quindi intorno ai 13 anni di età degli alunni, e successivamente, accanto a un ciclo più o meno simile all’attuale liceo classico-scientifico, un ciclo scolastico tutto da reinventare e magari differenziato al proprio interno, orientato allo sbocco universitario di cui sopra ma che al suo termine preveda già un diploma effettivamente professionalizzante.

In Italia c’è un bisogno assoluto di ridare dignità culturale e sociale e quindi economica al mondo del lavoro, di tutto il lavoro, e il modo di farlo parte dalla scuola. Se il dibattito elettorale si fosse compiaciuto di parlare anche di un tema del genere scommetto che avrebbe suscitato un interesse almeno pari a quello delle «bollette».

CORRIERE.IT

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