Il futuro della scuola nel silenzio dei partiti

di Ernesto Galli della Loggia

I promossi sfiorano ormai sempre il 100 per cento. Dato solo apparentemente ultrapositivo, infatti di questi promossi oltre il 20% abbandona l’università dopo il primo anno e alla laurea non arriva neppure la metà delle matricole

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(LaPresse)

Anche in questa campagna elettorale per l’ennesima volta sull’istruzione è calato il silenzio. Nessun partito ne ha fatto un tema centrale della sua piattaforma politica. Il fatto è che della scuola e dell’istruzione, in realtà, la politica non sa né si cura di sapere nulla. Ubriacata dal mare di demagogia che negli ultimi trent’anni essa stessa ha prodotto al riguardo e che la burocrazia ministeriale si è incaricata di moltiplicare per mille, ignora la realtà critica delle cose. Ignora che l’intero sistema italiano dell’istruzione pubblica, dalla scuola dell’infanzia all’Università, fa acqua da ogni parte. E per conseguenza non si rende conto che questa sta diventando sempre di più una delle cause principali della nostra arretratezza complessiva come Paese.

Basta a confermarlo il dato di cui abbiamo avuto notizia proprio da questo giornale ( Corriere della Sera , 19 settembre): le altissime cifre dell’evasione dell’obbligo scolastico e dell’abbandono degli studi (quelli universitari compresi). Il che fa sì che ben il 23,1% (una cifra enorme) dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni di età non studia e non lavora. Si spiega così la situazione del nostro mercato del lavoro che specie nel Mezzogiorno e specie tra le donne vede un altissimo numero di persone prive di qualunque competenza professionale, destinate perciò alla disoccupazione o a lavori dequalificati e perlopiù in nero: due categorie, detto tra parentesi, alle quali appartengono anche molti percettori del reddito di cittadinanza.

Ma la crisi del sistema dell’istruzione ha un significato ancora più vasto e grave. La scuola che c’è è una scuola che — non per colpa di chi in essa lavora ma a causa dell’impostazione che le è stata data da scelte politiche sconsiderate — non ha come sua stella polare l’importanza cruciale del sapere, non motiva allo studio, non pone al primo posto il merito e quindi non educa in questo senso le nuove generazioni. Stando alle prove Invalsi è una scuola che non riesce neppure a insegnare ai suoi alunni (ci riesce infatti solo la metà) a comprendere il significato di un testo scritto non in cinese ma in italiano. È insomma una scuola che a dispetto di tutte le sue intenzioni non aiuta la società italiana a essere migliore, più dinamica, più competente, più colta, più civile.

Per rimediare non basta tuttavia farla finita con le conseguenze di prassi o di scelte sbagliate compiute in passato. Non servono controriforme. Ciò che è necessario è ripensare l’intera organizzazione dei cicli scolastici: non solo stabilendo finalmente la durata dell’obbligo al termine delle secondarie (17-18 anni), ma adottando un principio nuovo, e cioè partendo dal punto d’arrivo degli studi, da quella che oggi è l’Università.

Per avere una scuola nuova bisogna innanzi tutto immaginare un nuovo modello per gli sbocchi che essa apre ai suoi studenti dopo l’esame finale di licenza di scuola secondaria. L’esistenza — come avviene ancora oggi — di un solo sbocco, quello universitario tradizionale, a cui da mezzo secolo è possibile accedere con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola. L’esistenza di un unico sbocco presuppone infatti due cose del tutto irreali: innanzi tutto l’equivalenza sostanziale della qualità dei contenuti dell’insegnamento e dei suoi risultati in qualunque tipo di scuola, da quella professionale al liceo classico; in secondo luogo presuppone l’eguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari.

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