L’anno del Sultano

I rischi dell’agenda Erdogan

Questa condizione non è esclusivamente favorevole a Erdogan. Un’espansione così accentuata degli interessi del Paese anatolico comporta anche un inevitabile dispendio di energia e di denaro unito a un fisiologico aumento delle possibilità di tensione con i maggior partner internazionali, vicini e più lontani. Il rischio, in sostanza, è che una volta chiusa la finestra di opportunità che Erdogan è capace di sfruttare, sopraggiunga un isolamento più o meno accentuato o un’ostilità crescente. Condizione che colpisce non solo l’economia, ma anche l’agenda politica generale della Repubblica turca in cui possono sorgere rivalità sempre più nette e blocchi apertamente contrari alla strategia di Ankara. Questo è già successo e i frutti si sono osservati specialmente in questi anni.

Le divergenze con la Nato hanno provocato lo stop al programma F-35 e a forti ritrosie in sede Usa per la vendita degli aerei F-16, mentre la lira turca ha subito un crollo nato anche da una certa opposizione dei circuiti economici e finanziari americani. Il gioco di equilibrismo che contraddistingue la politica anatolica – una sorta di gioco d’azzardo esteso dal Sahel al Mar Nero – ha poi scatenato la contrapposizione non solo della Grecia e di Cipro, ma anche di altri attori regionali e internazionali direttamente o indirettamente colpiti dalle politiche espansive turche, come Israele, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, ma anche la Francia o in parte la stessa Italia. L’inserimento in diverse dinamiche mediorientali, caucasiche e africane ma soprattutto l’interessamento sulla questione ucraina ha poi provocato per diverso tempo la freddezza russa, mitigata solo dal fatto che Erdogan, per giocare al meglio la partita del Mar Nero, si è proposto come mediatore evitando di unirsi alle sanzioni a Mosca.

Anche dal punto di vista interno, questa condizione di azzardo continuo nelle varie aree di crisi vicine e più lontano comporta dei costi non sottovalutabili. Una politica estera assertiva, con un’agenda fortemente orientata al ripristino del valore della Turchia quale potenza autonoma e decisiva aiuta certamente a ricompattare una parte dell’elettorato, specie quello nazionalista. Come la vicinanza ad alcuni temi più marcatamente islamisti ha reso possibile la trasformazione del partito Akp in un sistema che unisce anche i segmenti più religiosi del Paese messi da parte per decenni dal kemalismo. Ma dal momento che l’agenda esterna di Ankara si riflette su quella interna, tutto assume anche dei connotati di fragilità. L’utilizzo dei rifugiati siriani ha, per esempio, provocato reazioni a lungo termine decisamente negative di una parte della popolazione ormai stanca di milioni di persone inserite all’interno del Paese e che vengono visti come elementi estranei specialmente in una fase di crisi economica.

L’allontanamento dagli Stati Uniti non sempre riceve accoglienza positiva da parte di quei ranghi delle forze armate legati all’Alleanza Atlantica. Inoltre, il crollo della lira turca ha reso chiaro a tutti i pericoli di un Paese isolato sul piano finanziario, al punto da dover sperare negli interventi risolutivi dei petroldollari qatarioti. Sostenere gli interventi delle forze regolari, dei “proxy” e delle compagnie private in giro per il mondo ha inoltre un costo che in una fase di forte contrazione economica viene visto con estremo sospetto. Infine, la svolta autoritaria e a forte connotazione religiosa – servita, anch’essa, in chiave geopolitica – ha allontanato il governo da parti fondamentali dell’opinione pubblica al punto da far rischiare più volte a Erdogan di perdere lo scettro del potere.

Le ondate di arresti dopo il fallito golpe del 2016 non hanno certo unito il Paese ma dimostrato una forte spaccatura. La ricerca spasmodica di nemici interni, dai curdi del Pkk all’organizzazione di Fetullah Gulen, non ha sortito l’effetto di sradicare il dissenso né il senso di fragilità della leadership turca. E le città della costa occidentali, compresa Istanbul, sono considerate non più punti di forza, ma spine nel fianco di un presidente che sogna la consacrazione nel 2023 ma che rischia di rimanerne ampiamente deluso. L’unica soluzione, in molti casi, appare proprio quella dell’esternalizzazione dei problemi: con una politica internazionale che, nei fatti, ha reso Ankara un elemento centrale e sempre più indipendente rispetto ai blocchi che si contrappongono. Una scelta di natura “imperiale” ben connaturata nelle dinamiche della storia turca, ma che rischia di far apparire il Paese e il suo sultano più come mossi da velleità di gloria che da concreti e puntuali obiettivi.

INSIDEOVER

IL GIORNALE

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