L’anno del Sultano

Lorenzo Vita

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Recep Tayyip Erdogan non è solo il presidente della Turchia, ma un uomo che in questi mesi (ma potremmo dire anni) ha saputo ritagliarsi un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche internazionali. La guerra in Ucraina, con il sultano a farsi addirittura garante dello sblocco della partita del grano attraverso il Bosforo, è solo l’ultima immagine. Forse quella più eloquente e possibilmente più ricercata dal leader turco, desideroso di mostrarsi al mondo come interprete di chi vuole la pace e la risoluzione di crisi potenzialmente esplosive per alcune regioni del mondo. Ma se questa è l’ultima fotografia, quella dell’Erdogan mediatore, esistono una serie di altre immagini non meno importanti che rendono di fatto impossibile, oggi, parlare della politica mediterranea, mediorientale, nordafricana e di fatto anche europea senza dover fare riferimento alla figura del presidente turco. E questo è accaduto anche mutando più o meno radicalmente strategie, obiettivi, alleanze e tattiche semplicemente a seconda delle opportunità che si sono venute a creare nel corso del suo lungo periodo alla guida di Ankara.

Le mosse in Siria e Libia

Scorrendo i più recenti focolai di guerra, tensione e crisi che hanno coinvolto l’Europa (e in particolare i suoi confini), è facile notare come tutti quanti abbiano un comune denominatore nella capacità del “sultano” di inserirsi nelle partite massimizzando i propri profitti. Lo abbiamo visto in Siria, dove Erdogan, da amico di Bashar al Assad, all’inizio della guerra ha deciso di puntare tutto sui ribelli per penetrare all’interno del tessuto statale siriano e soprattutto infliggere un duro colpo alle organizzazioni curde nel nord del Paese. Poi Ankara ha di nuovo cambiato atteggiamento, costruendo insieme alla Russia e all’Iran quella piattaforma di Astana che serve a regolare il conflitto e che è composta da due potenze che hanno apertamente appoggiato Assad facendo sì che mantenesse il potere. Tutto questo senza che la Turchia sia mai uscita dall’Alleanza Atlantica e anzi riuscendo a capitalizzare il flusso di migranti partiti dalla Siria (e non solo) per bloccarli nel proprio Paese, cercare di inserirli nel tessuto sociale e lavorativo, ma anche per chiedere all’Europa diversi miliardi di euro in cambio della garanzia di non lasciare che queste ondate di profughi di riversassero dall’altro parte dell’Egeo.

La partita libica è stata un’altra finestra di opportunità sfruttata dal presidente turco anche grazie agli errori dell’Europa e in parte anche dell’Italia, specialmente negli anni di Fayez al Sarraj alla guida di Tripoli. Anche in quest’occasione, la Turchia si è contraddistinta per il supporto nei confronti di una fazione strappando alleanze e accordi che oggi rendono Ankara il vero centro di potere della parte occidentale della Libia. La facilità del leader dell’Akp di sfruttare altri conflitti si è vista più di recente anche in una guerra spesso dimenticata dai media internazionali ma fondamentale dal punto di vista regionale: quella del Nagorno Karabakh, che vede contrapposti Armenia e Azerbaigian. In quest’occasione, Erdogan, sfruttando anche i legami etnici, storici e culturali con gli azerbagiani, si è subito attivato per il supporto militare di Baku ridisegnando i destini del conflitto in favore di quella parte.

Questi tre esempi, che rappresentano una sorta di cintura di fuoco intorno al Vecchio Continente, sono solo quelli più eloquenti e che hanno contraddistinto in modo sensibile (e anche più violento) l’importanza della nuova Turchia nel nostro quadrante di riferimento. Ma altre mosse, non meno importanti sotto il profilo diplomatico e strategico, hanno fatto capire in modo estremamente rilevante la capacità del Sultano di infiltrarsi nelle reti della politica regionale e mondiale per “passare all’incasso”. Lo ha fatto con la Grecia e con Cipro, nell’eterna sfida per il controllo dell’Egeo e dei mari che uniscono l’isola occupata a nord dai turchi fino a Creta. La contesa su quei fondali e sulla spartizione delle zone economiche esclusive ha portato a un continuo afflusso di navi da ricerca turche e militari in tutti gli specchi d’acqua imponendo una tensione che ha anche lo scopo di ristabilire le linee di delimitazione nelle acque del Mediterraneo in base alla mappa di “Mavi Vatan”, la dottrina marittima ideata dall’ammiraglio Cem Gurdeniz.

La partita con Israele

Una svolta a cui va aggiunto il più recente (e altrettanto importante) riavvicinamento con Israele dopo anni di forti tensioni legate soprattutto alla vicinanza di Erdogan con Hamas. Il presidente turco, in un recente colloquio telefonico con l’omologo israeliano Isaac Herzog, ha detto che “Ankara è disposta a favorire la cooperazione e il dialogo sulla base del rispetto delle sensibilità reciproche. La nomina degli ambasciatori è un passo importante verso lo sviluppo positivo delle relazioni”. Un riallineamento che arriva nelle stesse ore in cui l’agenzia Anadolu ha riportato le parole Erdogan sul fatto che i contatti con l’Egitto (altro Paese con forti dispute con la Turchia) “continuano a livello ministeriale” e che “gli egiziani sono nostri fratelli”. Segnali da non sottovalutare e che confermano la volontà del Sultano di riprendersi la scena anche nel Levante a seguito della nascita di un blocco anti-turco che sarebbe stato (e ancora sarebbe) decisamente deleterio per gli interessi strategici turchi, sia per quanto riguarda il gas sia per altre questioni di natura diplomatica e di sicurezza. A questo proposito, e a conferma del dinamismo turco in tutte le aree del mondo più vicine ai sogni di gloria del Sultano, non va dimenticato il meccanismo di soft power e diplomazia con cui Ankara ha saputo ritagliarsi un sempre maggiore spazio anche in Africa. Una politica che ha permesso a Erdogan di sfruttare prima la sua vicinanza con la Somalia, per poi risalire il Sahel, l’Africa centrale e occidentale e ricongiungersi fino al suo avamposto libico.

Grazie a questa politica di espansione della propria rete di partnership e presenza militare, il presidente turco è riuscito a capitalizzare anche un evidente peso politico anche nel consesso atlantico, se non in quello europeo. La testimonianza di tutto questo si è avuta più di recente anche con la minaccia del veto turco all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. Una mossa che se da un lato ha confermato le difficoltà del sistema occidentale nei rapporti con Ankara, dall’altro lato ha anche ribadito l’impossibilità di molti leader atlantici (e dello stesso segretario generale) di bloccare sul nascere le ambizioni del Sultano dovendo in qualche modo scendere a compromessi. Compromessi che in questo caso sono evidentemente a favore del partner turco, in un meccanismo di do ut des che ricorda quanto già fatto con la crisi migratoria dalla Siria.

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