Kaliningrad, la nuova Danzica pretesto per la guerra totale

Quando la attraversai lunghe file di anziani tedeschi sbarcavano all’aeroporto e su autobus rantolanti come il comunismo che li aveva costruiti, visitavano la città, la loro città. Erano i tedeschi che, bambini, erano fuggiti su quelle navi disperate e ora, annientata l’Urss, tornavano per un patetico, straziante turismo della nostalgia. Cercavano le vecchie case sciupate dall’incuria, portavano regalini ai loro nuovi padroni per invogliarli a farli entrare per qualche minuto nelle stanze di quello che un tempo era stato loro. Correvano voci incontrollate, allora, che la ricca Germania, approfittando della bancarotta russa, avesse intenzione di comprare la città, ribattezzarla di nuovo Koenisberg e ricostruirla come era a colpi di marchi, trasferendovi in un gioioso e capitalistico contrappasso, i tedeschi del Volga che Stalin nella sua geografia delle deportazioni aveva spedito in Asia centrale. Non era forse un segnale che il cancelliere Kohl avesse regalato alla città coloratissimi cestini per la raccolta differenziata dei rifiuti? Dopo poco sparirono e finirono bruciati nella consolidata abitudine russa di dar fuoco alla immondizia. Di quel baratto non si parlò più anche perché stavano arrivando i tempi ruvidi della rivincita putiniana.

Nelle pietose bugie del termidoro eltisniano Kaliningrad doveva diventare la Hong Kong russa, una sorta di zona economica speciale. Invece fu il cuore della sua miseria. Il cinquanta per cento della popolazione era senza lavoro, migliaia di prostitute fameliche presidiavano le strade ad ogni ora del giorno e della notte e le statistiche dell’Aids ponevano la città su soglie africane. Anche metà della flotta del Baltico risultava sieropositiva. i colleghi di Putin nel nuovo Kgb parlavano, ovviamente, di un perfido attentato batteriologico dell’Occidente alla purezza sessuale russa.

Esisteva una sola economia, quella illegale in mano alle mafie, che almeno quella, funzionava benissimo. Enormi depositi di auto raccoglievano quelle rubate in mezza Europa. Metà dell’ambra, per cui questa zona del Baltico era celebre già al tempo dei vareghi, spariva dalle statistiche venduta di contrabbando in Polonia e in occidente, come la vodka e i generi alimentari approfittando della assenza di dazi. Si mormorava di un movimento indipendentista disgustato dalla indifferenza della remota capitale proprio per una terra conquistata con il fucile in mano. Il direttore di un giornale che denunciava il malgoverno e i briganti travestiti da uomini d’affari del nuovo capitalismo russo, fu aggredito da un killer che lo ridusse in fin di vita. L’epoca preparava, come si vede, nell’informazione il vizio dei tempi putiniani.

Qui la tecnica dell’ex spia divenuto zar di speculare sulla rabbia e la frustrazione che quei tempi sciagurati avevano generato ha funzionato facilmente. A dimostrazione che è la perdita di dignità che ha effetto sulla fantasia e non la sempre imperfetta idea del dolore. Questa è una Russia arbitraria, artificiale, frutto di una deportazione e di una occupazione. In fondo il contrario di quella dei russofoni «irredenti» del Donbass che è servita come pretesto per la prima fase della guerra. Non ci sono minoranze ostili, i russi, soprattutto quelli di una certa età, si sentono in questo clima di nuova guerra fredda che cresce, sentinelle isolate in un avamposto sopravvissuto incredibilmente alla Storia.

LA STAMPA

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