I dilemmi del campo largo, Letta: “Ora il magnete siamo noi”

Annalisa Cuzzocrea

La successione degli eventi lascia increduli. Martedì mattina il consiglio nazionale del Movimento 5 stelle si era riunito con almeno due vicepresidenti di Giuseppe Conte pronti a strappare, a dire «basta così non si può andare avanti, stare al governo ci danneggia». Stesso posto, via di Campo Marzio a Roma, 24 ore dopo: le dichiarazioni sono opposte. Il leader M5S si prepara ad andare in tv – lo ha fatto poi a Otto e mezzo – per dire che il suo sostegno al governo è pieno e soprattutto, è l’accusa che gli ha fatto più male, che il suo atlantismo non può essere messo in discussione. E così tutti i dubbi sulla risoluzione parlamentare che consente al governo di inviare armi all’Ucraina senza alcuna nuova autorizzazione delle Camere, sulla linea tenuta da Draghi nei consessi europei, sono scomparsi come per incanto nell’arco di una notte.

A compiere il miracolo sono stati, fuori da ogni previsione, lo strappo di Luigi Di Maio e la sanguinosa scissione preparata e portata avanti dal ministro degli Esteri. Perché il quadro dipinto dai fuoriusciti, quello di un partito politico che coltiva ambiguità sulla collocazione internazionale dell’Italia e che – per dirla senza troppi infingimenti – fa più gli interessi russi che quelli dell’Ucraina, è molto pericoloso per quel che resta del Movimento. Significherebbe consegnarlo alla posizione ribellista di Alessandro Di Battista (ancora fuori) e Virginia Raggi (ancora dentro). Di certo, lo allontanerebbe dal Pd e dalla coalizione che – per quanto con mille difficoltà – garantisce all’ex premier un orizzonte istituzionale.

E così ieri è andata in scena una sorta di indietro tutta, prima con le dichiarazioni del ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, poi con quelle della viceministra dello Sviluppo Alessandra Todde: «La permanenza nel governo non è in discussione». L’unico a esprimere dubbi è Stefano Buffagni, ma una nota del Movimento smentisce immediatamente le parole che il deputato M5S aveva consegnato ai cronisti e quelle filtrate dalla riunione. Che è stata, a detta di tutti i partecipanti, parecchio festosa: «Io non prego nessuno per restare – ha detto Conte – chi è andato via non crede nel progetto che abbiamo avviato ed è meglio non ci sia più». Anzi, aggiunge: «Se qualcuno vuole seguirli lo faccia subito». L’idea è quella di navigare più leggeri, senza la zavorra di chi remava contro.

Ma navigare verso dove? Il punto è questo e c’è una cosa che il leader M5S e i suoi – a partire dal presidente della Camera Roberto Fico che ieri lo ha volutamente raggiunto per un caffè – non vogliono farsi scippare: l’alleanza con il Pd. Così è partita in queste ore l’operazione: «Scegli me», sia da parte dell’ex premier che da quella del ministro degli Esteri. Il campo, più che largo, in questo momento è sbrindellato. Ma una cosa è certa: tutti cercano il Pd. Lo fa Di Maio, che guarda tanto al movimento del sindaco di Milano Beppe Sala che a figure di amministratori come Stefano Bonaccini in Emilia Romagna o Dario Nardella a Firenze. E lo fa Conte, che martedì ha sentito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e che, nell’ultima riunione con i suoi, ha stabilito che non è lo strappo che bisogna cercare. Ma un modo di stare dentro l’alleanza e dentro il governo rafforzando la propria identità. «La verità è che il magnete è il Pd», diceva ieri Enrico Letta. Quel che pensano, al Nazareno, è che se l’operazione di Di Maio dovesse funzionare potrebbe venirne perfino del bene. Perché divisi i due mondi a 5 stelle – quello moderato e quello con venature populiste – potrebbero raccogliere più voti di quanti ne avrebbero raccolti senza scindersi. Considerato che stavano perdendo in media un punto al mese.

Un’emorragia a cui qualcuno pensava di porre rimedio uscendo dal governo e lasciando ai dimaiani tutti i compromessi necessari per restarci dentro, prima che intervenisse un nuovo senso di realtà. Se la legge elettorale non cambia in senso proporzionale, le alleanze sono vitali e l’unica possibile in questo momento è con il Pd. Stesso ragionamento tra i seguaci di Di Maio: avranno pure già incassato il sostegno di Toti e Brugnaro, ma non è a quello che puntano. C’è una vasta area di centro in cui pascolare. Con l’obiettivo dichiarato di sostenere il più possibile Mario Draghi, magari anche dopo la fine di questa legislatura.

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