Amministrative, divisioni e corse separate al voto: a rischiare di più è il centrodestra

Federico Geremicca

Non sarà certo la madre di tutte le battaglie, eppure il combinato disposto del voto di domenica prossima (amministrative più referendum) rischia di avere effetti dirompenti sul già precario equilibrio in cui versa il sistema dei partiti. E così, come fosse l’ultima amichevole prima della sfida della vita (le elezioni politiche della primavera 2023), le squadre provano tattiche e schemi di gioco. Scoprendo – anzi, riscoprendo – che il problema maggiore non sono gli avversari, ma – come si dice – il clima nello spogliatoio. Le squadre sono litigiose, divise al loro interno e preda dei clan. E i capitani s’azzuffano, molto preoccupati dalla posta in palio.

La posta in palio dovrebbe essere, naturalmente, la conquista delle più grandi città che vanno al voto (ventisei capoluoghi di provincia e quattro di regione): ma l’appuntamento si è caricato come sempre di significati assai diversi, con esperimenti che ora attendono il giudizio degli elettori. I voti veri – e non più i sondaggi – confermeranno la crescita di Giorgia Meloni (che infatti in centri importanti correrà da sola e non con gli alleati)? Quanto profonda sarà la nuova emorragia che pare attendere i Cinquestelle, e che effetto produrrà sul traballante patto col Pd? E Salvini poi? Porta al voto una nuova lista (Prima l’Italia) che pare fatta apposta per confondere le acque e mascherare la crisi: ma se i conti non tornassero comunque, se perdesse in città simbolo (perfino Verona pare contendibile) e i referendum finissero spiaggiati dall’astensionismo? Che ne sarebbe del Capitano?

A rischiare di più – per la profondità della crisi che attraversa – è senz’altro il centrodestra. Le diffidenze che segnano ormai da tempo i rapporti nella triade al comando, hanno prodotto anche stavolta spaccature e corse separate in molte importanti città (da Parma a Verona, passando per Messina e Catanzaro). Ora si paventano sconfitte inattese, e in quel caso varrebbe la pena di fare i conti con qualcosa che non torna. È dall’estate del Papeete, infatti, dalla crisi del governo gialloverde, che il centrodestra chiede elezioni politiche anticipate: quel voto non è arrivato, ma ne sono arrivati altri, numerosi e importanti. Bene: la cronaca dice che – a partire dalle battaglie campali perdute in Emilia e Toscana – Berlusconi, Salvini e la Meloni non ne hanno più vinta quasi nessuna, franando clamorosamente in tutte le maggiori città del Paese (Roma, Milano, Napoli, Torino…). Dov’è il problema? E come si risolve?

Dall’altro lato le cose non vanno granché meglio. Il Pd infatti tiene, ma i Cinquestelle continuano a calare. Renzi è imperscrutabile, va un po’ di qua e un po’ di là (a Genova, per esempio, è schierato col centrodestra). Calenda si batte, ponendo condizioni fin troppo stringenti. E il chimerico campo largo cui pensa Letta, insomma, resta ancora un’aspirazione. In più, c’è l’inatteso problema della traiettoria del “nuovo Conte”. In ossequio all’italianissimo qua nessuno è fesso – e in barba ai risultati che sta producendo sulla stessa Lega la linea di governo e opposizione imposta da Salvini – Giusppe Conte è tornato a fare l’“avvocato del popolo”, scimmiottando l’ex alleato. Cominciare dalla guerra in Ucraina, non è parsa una grande idea. Ma tant’è. L’interrogativo, adesso, riguarda il futuro prossimo: fin dove può spingersi? Non fino alle elezioni anticipate, giurano molti: ma ha il problema di tenere assieme un Movimento che perde un pezzo al giorno e che sembra sfuggirgli in ogni direzione. Tutto può succedere.

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