Gli sconfitti dell’Azovstal, umiliati e sacrificati da Kiev

Domenico Quirico

Mescolo immagini, le sovrappongo e le confondo, ciò che importa non è contare le carcasse dei carri armati distrutti, i villaggi presi e perduti, le dichiarazioni dei politici, quello che conta è cogliere il senso segreto di questa guerra, mettere in luce il suo particolare inconfondibile carattere. Scelgo le immagini della resa ucraina a Azovstal e quelle di un villaggio a due passi del fronte dove sono rimasti donne vecchi e bambini che non sanno dove andare. Allora tutto mi sembra più chiaro: questa è l’ennesima guerra della povera gente, in divisa e non, l’unica guerra vera nel mare delle bugie, la guerra e il dolore.

Quelli di Azovstal, i vinti di Azovstal, terribile nome di ferro e di sangue. Adesso che è finita senza gloria ma soltanto con immenso, inutile sacrificio mi appare davvero una Giarabub ucraina: migliaia di uomini tagliati fuori dalla battaglia che conta, ma usati come propaganda, gli irriducibili… quelli che non si arrendono… che impediscono ai russi di avanzare. Propaganda per nascondere errori strategici e sconfitta come quando ci inventammo, in Africa settentrionale, travolti dagli inglesi, la epica resistenza di una remota, inutile oasi libica che il nemico trascurava perché non valeva neppure la fatica di attraversare il deserto.

Adesso escono in lunghe file, si rovesciano fuori dalle macerie dei loro rifugi nella catacombe della acciaieria in gruppi stanchi, urtandosi disordinatamente prima di incamminarsi verso il nemico che li attende. C’è un immenso silenzio intorno, interrotto solo dai comandi dei soldati russi che ordinano di deporre gli zaini e di mostrare i tatuaggi alla ricerca di quelli del reggimento «fascista», e dal rumore del vento. Le raffiche passano su quegli uomini esausti, feriti, umiliati come un’onda. I vinti come naufraghi gettati a riva dalla tempesta, gettati a riva dalla dolce onda del vento.

In quel sibilo che sembra poter piegare non solo i fili d’erba ma anche i ruderi e rottami sparsi nella strada dove si svolge il rito della resa, il respiro, le parole rauche di vincitori e vinti assumono un suono grave. Ora che hanno perso la battaglia e sono lisi dalla fame e dalla fatica, avvolti in uniforme sporche e lacere li guardo: fronti dure, ostinate, sì sono una razza nuova, una razza dura, modellata già da otto anni di guerra. Marciano poi ordinati, in doppia fila verso gli autobus che li porteranno via verso un destino molto incerto, marciano per fame, per stanchezza, per restare vicini ai loro compagni di ottanta giorni di agonia. Ieri, i russi hanno ipotizzato uno scambio di alcuni di loro con l’oligarca filorusso arrestato dagli ucraini Viktor Medvedchuk.

Con il passare dei giorni si dirada, tra quelli che si consegnano, il numero dei feriti che si appoggiano a stampelle di fortuna o sono trasportati dai compagni sulle barelle. Si direbbe che non soffrano, forse il dolore non può nulla su quegli animi distratti dallo strazio della sconfitta, su quegli animi assenti, segretamente assenti. Passano volti pallidi dalle grandi occhiaie di aizzati dalla fame, di una tristezza dura. Hanno l’aria più di meccanici al termine del pesante turno di lavoro che di soldati.

Rating 3.00 out of 5

Pages: 1 2


No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.