Guerra Russia-Ucraina, il mese che ha cambiato la vita degli ucraini e le nostre

‘Provo a nascondermi’ era l’altra faccia delle città che non si stavano attrezzando, delle mancate scorte di cibo e medicine, degli ospedali non riforniti. Era una sottrazione scaramantica all’evidente. Temevano tutti che le minacce potessero precipitare nei fatti, ma nessuno osava ammetterlo. Come noi, cronisti, analisti, osservatori, che avevamo trovato comodo rifugio nel pensare che una guerra europea fosse troppo irragionevole per accadere davvero.

All’alba del 24 febbraio a svegliarci è stato il suono delle esplosioni. Erano da poco passate le cinque del mattino, l’eventualità irrazionale e svantaggiosa della guerra era diventata realtà.

La vita di prima, in Ucraina, era finita. La nuova era fatta di code alle stazioni di servizio e di fronte alle banche, file per comprare il pane e per scappare oltre confine, liste per andare a combattere e per donare il sangue. Chiuse le scuole, gli asili, gli uffici, serrate le case e i negozi, nuove le regole della vita quotidiana: non sciupare l’acqua calda, non sprecare la benzina, non accendere le luci di notte, fare scorta di cibo in scatola, spegnere i fari della macchina e aprire i finestrini in prossimità di un check-point, dormire vicino a una parete. Chiedere sempre dov’è il rifugio antiaereo piu’ vicino. Tutto quello che fino a poche ore prima era taciuto, era diventato automatico, immediatamente consuetudinario.

Dal 24 febbraio la paura in Ucraina ha assunto un suono: è una vibrazione, un sibilo, un fischio acuto, che allarma, agita e consuma. E’ la sirena che avverte che potrebbe verificarsi un raid aereo. Non è lo stordimento di fronte al frastuono delle bombe quando hanno disintegrato un edificio, o un ponte. E’ qualcosa che avviene un passo prima: è la paura potenziale.

E’ questo che fa il sibilo, l’allarme antiaereo, la sirena. E’ questo che consuma le energie di chi vive sotto minaccia e non l’abbandona: il condizionale, la possibilità.

Potrei essere io a morire schiacciata sotto una parete che crolla. Potrebbe toccare a qualcuno che amo restare senza un arto tranciato dai pezzi dell’artiglieria. Potrebbe appartenere a mia madre o mio figlio il corpo lasciato a terra che non ha sepoltura.

Così funziona la strategia della minaccia quando arriva dal cielo: da una parte l’aggressore che tiene sempre alto l’avvertimento di un pericolo che incombe e non è prevedibile. Dall’altra parte l’aggredito che impara a vivere in uno spazio nuovo – il sottosuolo in cui nascondersi – e in un tempo nuovo che si declina solo al presente. In guerra il passato si omette, per non ammettere che comunque vada, dovesse anche finire tutto domani, niente sarà piu’ come prima. Allo stesso modo si evita il futuro, abitato da aspettative, desideri, speranze. La guerra, invece, è abitata di fantasmi, perciò il futuro, oggi, per gli ucraini è diventato un tempo inospitale.

Ecco perché, oggi, ai confini polacchi o ungheresi, rumeni o moldavi, nelle case di chi ha deciso di restare in Ucraina, o nelle stanze che accolgono in un altrove qualsiasi chi è riuscito a mettersi in salvo, la regola da seguire è una sola: non chiedere a chi scappa da un conflitto com’era la vita di prima, perché trascurare il passato è l’impegno quotidiano dell’esule.

Mentre dorme su una brandina in una tenda al freddo. Mentre si ammassa su un binario cercando di salire sul treno prima di un altro essere umano che tiene stretto il suo bambino. Mentre abbandona fuori da un pullman che lo porterà oltreconfine il passeggino perché non c’è spazio. Mentre, prima di uscire di casa, forse per l’ultima volta, sceglie un oggetto, il piu’ piccolo possibile a ricordargli per sempre che c’è stato una dimora, le stoviglie, gli odori familiari dell’ultimo piatto cucinato, i libri, le abitudini. Un prima.

Quello che fanno, oggi, gli ucraini, è combattere per la vita che gli è stata strappata, cercando di pensarla il meno possibile, perché non importa cosa hai lasciato, cosa è stata la tua vita, con quale passo di normalità e decenza studiavi, lavoravi, acquistavi il pane alla bottega più vicina a casa tua, quello che ora conta è arrivare prima del tuo vicino sul treno che da Kiev va a Leopoli, e scappare. Riuscire a prendere prima di un altro dei soldi in banca, perché stanno finendo i contanti. Avere un pacco di farina in più di scorta nel rifugio antiaereo, avere una coperta in più, anche se non ne hai bisogno, perché della tua vita precedente hai perso tutto, e allora – forse –anche un oggetto che non serve, aiuta a ricostruire uno spazio e ricordarti che sei, anche costretto sottoterra, umano.

Una delle ultime cose che ho fatto, prima di lasciare Kiev, è stato visitare la metropolitana. Seduta su una coperta a scacchi c’era Anna, una giovane studentessa dell’Accademia d’Arte. Aveva con sé un registratore, ‘per appuntare i pensieri di notte’ mi aveva detto, e poi i suoi colori e una risma di fogli ruvidi. Stava disegnando una mappa dell’Ucraina, in corrispondenza di ogni città colpita il segno di una bomba e un luogo di memoria, un teatro, un monumento, un luogo che da bambina aveva visitato con suo padre. Aveva scelto di non lasciare il paese perché suo fratello era a combattere e lei non se la sentiva di sradicarsi lasciando la famiglia a Kiev.

Alle sue spalle, sul binario, la metropolitana funzionava ancora. Le luci al neon illuminavano gli annunci dei tour internazionali di gruppi e cantanti. Il binario era la casa di anziani, famiglie e anche la sua. La solidarietà era la cosa piu’ rassicurante che la comunità ucraina aveva saputo far emergere dal dramma, mi aveva detto Anna. La compassione e il rigore, la generosità incondizionata, l’integrità. Eppure, prima che mi congedassi, augurandole di tornare presto in Accademia, Anna – così come Olixey passeggiando nella piazza di Kramatorsk – mi ha consegnato una frase che mi accompagna e di cui ancora sento l’eco. Le avevo domandato cosa facesse di giorno, quando era meno soffocante la paura delle bombe, se passeggiasse per le vie di Kiev.

Anna ha fatto cenno di no col capo. Vado a casa, ha detto, perché la cosa che meno sopporto della guerra è vedere la vita e la morte convivere in un equilibrio che non riesco a capire.

E’ passato un mese dall’inizio della guerra. I combattimenti hanno già preso la forma piu’ subdola e ambigua dei conflitti, lo stallo, in cui la storia ci ha insegnato si sedimentino e moltiplichino i rancori. Le vittime ci somigliano e questo ci fa sentire piu’ coinvolti, piu’ generosi e insieme piu’ impotenti. Vorremmo ammettere che lo siamo perché sentiamo il fiato sul collo della minaccia, ma anche noi – scaramanticamente – tacciamo la paura, sprezzanti di normalità.

Le macerie d’Ucraina sono lì, noi spettatori le osserviamo intontiti in un costante teatro degli orrori. Sappiamo l’abbandono silenzioso dei luoghi, sappiamo gli assedi, la morte del sottosuolo. Sappiamo gli appelli, le richieste di agire. Eppure non sappiamo esattamente che fare.

Potremmo cominciare con l’ammettere che la vita di prima – la loro e la nostra – è finita. Che riusciamo a pensare solo al presente e vorremmo nasconderci. Che la cosa piu’ insopportabile della guerra è l’equilibrio tenace tra la vita e la morte. Che abbiamo paura di diventare le prossime vittime di quella minaccia potenziale.

LA STAMPA

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