Guerra Russia-Ucraina, il mese che ha cambiato la vita degli ucraini e le nostre

Francesca Mannocchi

La vita di prima è finita. La guerra si può riassumere così, con una frase netta che parla solo al tempo presente.

Quando sono atterrata a Kiev, il 20 febbraio scorso, la città era imponente e nervosa, le truppe russe erano già da settimane ammassate ai confini dell’Ucraina e pur consapevole della minaccia reale di un conflitto, restavo convinta che Putin non avrebbe lanciato una guerra totale contro l’Ucraina, certa che Mosca avrebbe inasprito i combattimenti in Donbass e che sarebbe stato quello – il territorio delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk – il palcoscenico militare su cui si sarebbe consumata la muscolare, temporanea, espressione della forza per fare pressione sulla Nato, portare a casa qualche risultato, un pezzo di territorio forse, rosicchiare un po’ di consenso e mantenere una solida, internazionale, impunità. Pensavo che raccontare la crisi da Kiev significasse osservarla da lontano, da un luogo inquieto sì, ma tutto sommato confortevole. Le guerre, ci hanno insegnato, si devono guardare da vicino e il posto piu’ prossimo da cui osservare questo conflitto, solo un mese fa, era appunto il Donbass. Così, affacciata all’undicesimo piano di un hotel del centro di Kiev – le pubblicità delle collezioni delle grandi firme a illuminare i larghi viali della capitale, gli annunci dei concerti pop e della stagione dell’opera – ho deciso che avrei preso un volo per Kharkiv già il giorno successivo e che da lì mi sarei spostata in auto a Kramatorsk, città duramente contesa nel 2014, e rimasta sotto controllo ucraino dopo che Donetsk è finita sotto il controllo dei separatisti. Era lì la linea di contatto, era lì che sarebbe di certo, accaduto qualcosa, ma l’eventualità di un assalto su vasta scala pareva non solo irrazionale ma svantaggiosa anche per i russi che continuavano a negare ogni intenzione di invasione.

Anche a Kramatorsk, nonostante la prossimità con la linea del fronte, nessuno si stava davvero preparando a una possibile spirale militare: non erano stati predisposti alloggi in prospettiva dell’arrivo degli sfollati, non c’erano centri di accoglienza riforniti di cibo e acqua, e gli ospedali non erano in allerta. Nessuno a fare scorta di sangue o medicine. E’ l’abitudine alla guerra, mi sono detta. Forse è così che funziona, se hai il fronte in casa per otto anni, alla fine quasi non ci pensi piu’ e la guerra diventa qualcosa che semplicemente è lì, sulla linea del fronte, sulla linea di contatto.

Che c’era di piu’ l’avrei capito passeggiando nella piazza di Kramatorsk con Olixey, trent’anni e una figlia di otto. Cosa fai se si intensificano i combattimenti in Donbass? gli avevo chiesto. Immaginavo una risposta patriottica, l’ostentazione d’orgoglio di un giovane che vede la sua nazione minacciata e non indugia, si unisce all’esercito, alle Unità di Difesa Territoriale e va a combattere. Invece Olixey ha detto: provo a nascondermi perché ho paura.

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