Draghi: «Non possiamo fermarci». Il pranzo tra Giorgetti e Di Maio

di Monica Guerzoni

Il presidente del Consiglio chiama il responsabile dello Sviluppo economico

Mario Draghi cambia passo sulla lotta al Covid. Forte dei numeri «molto incoraggianti» delle vaccinazioni il premier decide di spalancare porte, finestre e saracinesche del Paese e indica la via della libertà dopo due anni di restrizioni. Una svolta, che segna l’inizio di una nuova fase per un’Italia «sempre più aperta». Ma se Pd, Forza Italia, M5S, Italia viva e Leu condividono lo sprint verso il ritorno alla normalità, la Lega invece strappa e, al momento del via libera al decreto, sceglie l’astensione. «Non ci possiamo fermare», è la reazione stupita e quasi incredula di Draghi per una mossa in controtendenza rispetto alla linea aperturista del Carroccio. E questa volta non è un semplice tirar dritto da parte del premier, è l’annuncio di un metodo di lavoro. «Saranno mesi difficili», prevede il presidente del Consiglio e si prepara a prendere con ancora maggiore «nettezza e pragmatismo» tutte le decisioni che riterrà giuste, per portar fuori il Paese dalla crisi pandemica e da quella economica.

Draghi insomma non sembra più disposto a ingaggiare un braccio di ferro via l’altro, non vede ragioni politiche che possano fargli cambiare indirizzo su questioni che ritiene sacrosante, come la scuola in presenza. Per l’ex banchiere centrale è un principio cardine, tanto che Draghi ha ringraziato Roberto Speranza, Patrizio Bianchi e il sottosegretario Roberto Garofoli, che ha lavorato al testo. La bozza del decreto era più graduale, è stato il premier a spingere per eliminare il più possibile la dad. «Lo Stato ha investito sui vaccini e non è giusto che a pagare un prezzo siano le famiglie che si sono affidate alla scienza e alle scelte del governo», è il ragionamento di Draghi. Così è stato per la scuola, simbolo della riapertura e così sarà su altri temi, anche se la Lega o altre forze dovessero minacciare il non voto in Cdm.

«La situazione è molto brutta», è la sintesi di un ministro. Lo strappo di Salvini è un segnale d’allarme per la tenuta del governo e Draghi non lo sottovaluta. Ma anche se teme che Salvini starà «con un piede dentro e l’altro fuori», non vede traballare il governo. Sente di avere il mandato pieno e tutta la fiducia di Mattarella come garante della stabilità e ritiene che la gran parte della squadra (e anche i cittadini) condividano l’urgenza di riaprire il Paese. La stessa urgenza di molti governatori del Nord, che lo hanno sostenuto nei giorni neri della battaglia per il Quirinale e che ora lo appoggiano sul cronoprogramma per uscire dalle restrizioni anti Covid. Le Regioni hanno chiesto di mandare in archivio le zone di rischio a colori e Speranza, anche grazie alla mediazione di Mariastella Gelmini, ha accettato di superare il sistema su cui si è retta la strategia del rigore. Anche per questo tra la Salute e Chigi si giudica «incomprensibile» lo smarcamento di Salvini e compagni.

Per capire quanto la Lega sarà di lotta e quanto di governo, Draghi ieri ha chiamato Giorgetti, che ha disertato sia la cabina di regia che il Cdm. Un segnale che, visto da Palazzo Chigi, non è rivolto a Draghi quanto a Salvini. Il ministro dello Sviluppo punterebbe a ottenere dal leader un mandato pieno a negoziare al tavolo del governo, senza troppe interferenze da via Bellerio. Giorgetti è combattuto, ma i suoi smentiscono che voglia dimettersi. Eppure il pranzo di ieri con Luigi Di Maio autorizza molti a pensare che il numero due della Lega — che per tutta la giornata ha ricevuto parlamentari in via Veneto — stia cercando una via d’uscita.

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