I partiti tra agende e agendine: le insidie dell’anno che verrà

di Paolo Mieli

Bilancio e previsioni dopo il voto sul presidente. Prima scadenza sarà il completamento della riforma della giustizia

La rielezione di Sergio Mattarella e la riproposizione del tandem costruito un anno fa dal presidente della Repubblica con Mario Draghi è stata, purtroppo, preceduta da un clamoroso fallimento. Il «secondo grande fallimento dei partiti in questa legislatura», ha scritto ieri Luciano Fontana (il primo fu, dodici mesi fa, quello che portò Draghi a Palazzo Chigi). Forse lo possiamo considerare il terzo fallimento della legislatura, se ricordiamo la rovinosa crisi, nell’estate del 2019, del primo governo guidato da Giuseppe Conte. Crisi alla quale seguì un’alleanza del M5S con Pd e Leu sotto la guida spigliata dello stesso Conte. Quell’alleanza fu stipulata in emergenza allo scopo di evitare elezioni anticipate che avrebbero potuto premiare Salvini. Ed ebbe come prezzo il taglio dei parlamentari non accompagnato — a dispetto degli impegni presi — da aggiustamenti costituzionali. Con conseguenze ad oggi imprevedibili. Che avremo però occasione di sperimentare dopo le elezioni previste tra un anno o poco più.

A ben guardare, dai giorni — tutto sommato pochi (sei) — dedicati al voto per l’elezione del presidente della Repubblica, i partiti sono usciti meno malconci di quanto ci è potuto apparire in presa diretta. Due di loro, Pd e Fratelli d’Italia, sono addirittura in uno stato di discreta euforia. Certo, anch’essi hanno mancato l’obiettivo. Ma né Enrico Letta né Giorgia Meloni conducevano le danze: hanno così potuto giocare di rimessa sicché nessuno dei due si è visto costretto a esporre e sacrificare un proprio candidato. Forza Italia addirittura festeggia — non è dato sapere se a ragione o a torto — per la «centralità» riconquistata da Silvio Berlusconi. Matteo Renzi ha trovato un ruolo elettrizzante nel mandare in frantumi la candidatura di Elisabetta Belloni (una strana storia, dagli aspetti opachi, interamente a danno — va detto — dell’incolpevole protagonista). Conte, invece, è stato costretto più volte ad affrontare problemi connessi al comando del M5S in compagnia di Luigi Di Maio. In questo momento sembra essere nei guai. Ma l’esperienza ci dice che dopo qualche trambusto i due ritroveranno l’«accordo». I piccoli partiti centristi, per quel che li riguarda, in occasione della battaglia per il Quirinale non hanno svolto ruoli di particolare rilievo. Perciò non hanno perso né guadagnato nulla.

Salvini si è affaticato invece nel giocare a palla con le teste di alcuni aspiranti al Quirinale, talvolta inconsapevoli. È un compito che si è improvvidamente autoassegnato senza essersi adeguatamente preparato nei mesi precedenti. È emerso che non ha né un’agendina né un numero adeguato di collaboratori fidati che conoscano e possano discretamente contattare persone fuori dallo strettissimo giro della Lega. Persone, intendiamo, candidabili a posti di responsabilità. Un problema del genere era già venuto alla luce quando nella primavera del 2018 si trattò di scovare un presidente del Consiglio e qualche ministro «indipendente» da mandare al governo assieme ai seguaci di Beppe Grillo (i quali, per parte loro, potevano contare sui misteriosi serbatoi della Link University). Tale difficoltà si è riproposta recentemente allorché Salvini e Meloni sono stati costretti ad andare in cerca di candidati sindaci per le grandi città. Ed è venuta nuovamente alla luce negli ultimi giorni quando si trattava di rinvenire un inquilino per il Quirinale.

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