La fatale dichiarazione di guerra agli Usa. Così Hitler perse la sua scommessa mortale

Gianni Riotta

La sera dell’11 dicembre 1941, raccontava mio padre Salvatore, gli studenti universitari dei gruppi fascisti Guf sfilarono nella sua città, inneggiando alla dichiarazione di guerra che Benito Mussolini e Adolf Hitler avevano consegnato agli ambasciatori del presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Quattro giorni prima, il 7 dicembre, le forze aeronavali giapponesi avevano attaccato, e colpito con efficacia, la flotta Usa, in rada a Pearl Harbor, Hawaii, aprendo il conflitto con Washington nel Pacifico. Ma il presidente Roosevelt, che dal 1939 sperava di battersi al fianco della Gran Bretagna contro i nazisti, non riusciva a persuadere il riottoso Congresso, popolato da senatori democratici del Sud, isolazionisti, a votare le ostilità contro Berlino e Roma, riuscendo solo a combattere contro il Giappone imperiale. È la scelta di Hitler, dissennatamente imitato da Mussolini, a suggellare il destino finale della guerra 1939-1945. Il ricordo di mio padre si completava con la disperazione del suo barbiere, emigrato per anni a Pittsburgh, operaio alle acciaierie, che nel clamore dei fascisti, gli confida dopo aver chiuso, per cautela, la bottega: «L’America forte è!».

Quei giorni che han segnato la storia, 7-11 dicembre 1941, sono al centro di un saggio degli studiosi inglesi Brendan Simms e Charlie Laderman, Hitler’s American Gamble, Pearl Harbor and Germany’s march to global war, tradotto da Vittorio Ambrosio per Newton Compton come I cinque giorni che hanno cambiato la Seconda guerra mondiale. Da Pearl Harbor alla dichiarazione di guerra di Hitler agli Usa: come la guerra diventò mondiale. In oltre 500 pagine Simms e Laderman documentano un mondo in bilico tra esiti opposti, vicino a una diversa storia, con gli Usa isolati contro il Giappone e Hitler padrone d’Europa, con il vassallo Mussolini.

Nel dicembre 1941 il premier britannico Winston Churchill dispera di convincere Roosevelt ad entrare nel conflitto e teme che i giapponesi attacchino le colonie inglesi e olandesi, ricche di risorse e indifendibili, senza coinvolgere gli Usa. Il leader sovietico Stalin sa, dalla spia tedesca a Tokyo Richard Sorge, che la cricca dei generali nazionalisti non intende attaccare Mosca, e, di soppiatto, ritira dal fronte orientale 20 divisioni, per farle affluire verso la capitale dove, il 5 dicembre, lancia una controffensiva contro la Wermacht che, per la prima volta dall’invasione, arretra. Le buone notizie dal fronte russo non rallegrano però Churchill che, nelle memorie del capo di gabinetto, Lord Alanbrooke, viene dipinto come depresso, alticcio, irascibile, convinto che dalle trame segrete fra Hitler, Stalin e i generali dell’imperatore Hirohito possa scaturire un’intesa per distruggere l’impero di Sua Maestà.

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