Dai grandi fasti alla crisi, oggi l’ultimo volo di Alitalia

Una contabilità affidabile ha stimato che tra il 1974 e il 2017 Alitalia ha accumulato perdite per 9 miliardi e, nel frattempo, lo Stato ne ha sborsati 10,8 per tenerla in cielo. La metà di questo tesoro è stato bruciato dopo il 2008, quando cioè il governo Berlusconi ha rotto la trattativa con Parigi e chiamato a bordo i presunti salvatori della Cai, Compagnia aerea italiana. «Amo l’Italia, volo Alitalia», garantì il Cavaliere, anche se la seconda parte del messaggio non era proprio vera, visto il debole per i voli privati.

Ci vinse comunque le elezioni, il condottiero di Arcore, promettendo agli elettori che non avrebbero perso la loro compagnia di bandiera, venduto quale simbolo eccelso di sovranità nazionale. Li spaventò col fantasma dello straniero, ebbe gioco facile a garantirsi il consenso contro i francesi, quelli che sembrano piacerci solo quando s’incazzano. Spiegò che Air France avrebbe portato i turisti a vedere i castelli della Loira e non le nostre belle città d’arte. Come in altre occasioni, fu un efficace pifferaio di Hamelin.

S’iniziò la stagione fallimentare degli aviatori coraggiosi (la Cai di Tronchetti, Colaninno, Angelucci & Co.), compagine eterogena che in breve costrinse lo Stato a una nuova capriola dopo aver scommesso sulla Milano-Roma mentre partiva l’alta velocità. Nel 2014, il fardello finanziario fu spostato sulle spalle arabe di Etihad con la complicità delle Poste. Le idee non erano proprio chiare, non poteva funzionare e non funzionò. Così nel 2017 Alitalia è rifallita ed è tornata dal Pantalone pubblico. La statistica rivela che da 1996 al 2018 lo Stato ha partecipato a 16 aumenti di capitale, mentre la redditività della compagnia precipitava nel rosso (salvo alcuni esercizi nel 1997-1999 e nel 2002, dopati dal denaro pubblico). Chiamatele, se volete, privatizzazioni.

Comunque sia, nel 2017 la società si è ritrovata nel limbo dell’Amministrazione Straordinaria, affidata a tre commissari – Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari –, con un nuovo esborso ponte di 900 milioni senza il quale sarebbe saltato tutto (si è poi saliti a 1,3 mld). Ci sono voluti quattro anni perché la Commissione Ue riconoscesse che si trattava di aiuti di Stato non accettabili, ma nel frattempo il cambio dell’assetto aziendale e la nascita di Ita hanno creato le premesse perché questi soldi non ritornino più nelle casse della Repubblica. Nel frattempo, la compagnia decollava ogni giorno come un albatros ubriaco, pagando leasing astronomici e non riuscendo a bilanciare i conti con un traffico sempre più compresso (anche senza pandemia).

Era impossibile che i commissari convincessero un acquirente a diventare Mr. Alitalia, soprattutto alla luce dei terremoti sociali e politici, amplificati per disgrazia dal Covid-19. Era come frustare un cavallo morto e, del resto, l’ultima è che non si è trovato nessuno pronto a pagare 296 milioni per il marchio Alitalia.

Lo Stato ha cucito l’ennesima pezza nella primavera 2020. Il governo ha imbustato il virus della compagnia di bandiere nel decreto “Cura Italia” e ha predisposto il battesimo del volo per una nuova società interamente sua controllata che esce dall’hangar domani all’alba sulla Linate-Bari. «Non sarà un altro carrozzone pubblico», ha promesso un anno fa il premier Giuseppe Conte. Vedremo. Nel 2020 il costo per ora volo di un Airbus 320 coi colori dell’Alitalia era di poco inferiore ai 9 mila euro, contro i 5.400 del suo principale concorrente su un Boeing 737. Adesso, chi lo sa?

L’Alitalia muore, viva l’Ita. Tutto ricorda la storiella di Noè che, finito il diluvio, guarda i compagni di viaggio e dice «ora dobbiamo proseguire con le nostre gambe». La nuova e dimezzata compagnia deve fare lo stesso. La sostengono 1,4 miliardi dell’ultima tranche giunta dalle nostre tasche: un conto neanche spannometrico eleva i 10,8 miliardi del 2017 a 13 miliardi di denari bruciati. Brutto presagio?

In effetti la discontinuità pare più aziendale che altro. Il cammino è gravido di incertezze. Le strategie sono in evoluzione, se si vuole essere buoni come si deve con chi cerca di scalare l’Everest a mani nude. Cambiare si deve e non si sa ancora come. Col dolore inutile della nostalgia, la consapevolezza del danno sociale e dello spreco nazionale perpetrato, si prova un sacro terrore che alla crisi segua un’altra disfatta. C’è più speranza che certezza per un lavoro sporco che qualcuno ha dovuto fare. A chi resta, vanno gli auguri di buon lavoro e l’auspicio di un “Arrivederci”. Prospettiva sulla quale, al solito, si accettano più scommesse che previsioni.

LA STAMPA

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