Cacciari: “I sindaci non contano più nulla e questo voto non è un test nazionale”

Paolo Griseri

Professor Cacciari, meno della metà degli elettori al voto nelle grandi città. Sorpreso?
«È un record ma non è sorprendente. Chiediamocelo: perché gli italiani avrebbero dovuto correre in massa a votare per i sindaci? Vuole la verità? I sindaci non contano nulla”

Ma come? Proprio lei che negli anni ’90 fu il fondatore del partito dei sindaci? Ha cambiato idea?
«Oggi i sindaci non contano nulla perché le decisioni fondamentali si prendono a livello nazionale. Gli italiani hanno in mente il virus, l’inflazione che riparte, le tasse. Tutte questioni che si decidono a Roma. Che cosa vuole che importi scegliere il sindaco? La gente ha altro per la testa. Pensa alle dosi, al green pass, al rischio di perdere il lavoro. E sa che il sindaco non può mettere becco su questi argomenti».

Una bella sconfitta per chi ha predicato la centralità del territorio, l’importanza delle autonomie. Non crede?
«Tutta quella teoria lì è fallita, perduta. I comuni contano come il due di picche. La battaglia culturale per le autonomie è miseramente finita con le riforme costituzionali abborracciate di qualche anno fa. Le città non hanno più la centralità degli anni Novanta fa quando l’elezione diretta dei primi cittadini aveva fatto credere in un progetto di autonomia dei territori e di federalismo. Non c’era solo il sindaco eletto direttamente dai cittadini ma anche il parlamentare eletto nei collegi uninominali. In questi modo si evitavano i candidati paracadutati dal centro, come i cavalli di Caligola nominati senatori. Quella stagione è finita da tempo. Sul clima di quegli anni sono passati i carri armati. Per questo dico che è una battaglia perduta».

Roma, l’apparato statale, ha vinto?
«Ha vinto la centralizzazione. Non solo di Roma ma anche di quelle istituzioni catafalco che sono le Regioni: le definirei esempi di centralizzazione locale».

E in queste elezioni amministrative chi ha vinto? Il centrosinistra festeggia. Fa bene?
«Fa bene a festeggiare nelle città in cui ha vinto. Ma sarebbe pura follia immaginare di trarre da questo voto un significato politico nazionale. Sono dati non riproducibili in una consultazione politica nazionale. Prendiamo il caso di Roma. Lì alle politiche Meloni prende da sola quanto tutte le liste di centrodestra che si sono candidate a queste amministrative. Poi, certo, il centrodestra ha preso una bastonatura. E quella resta».

Perché il centrodestra ha perso?
«Perché ha sbagliato i candidati. A Milano l’elettore di centrodestra è moderato. Se devi battere Sala nelle urne devi trovare un altro Sala. Che so, un Albertini. Non quell’inventato lì».

Che cosa ha spinto Salvini, Meloni e Tajani a sbagliare le candidature?
«Perché il centrodestra è diviso. La Lega è spaccata tra il partito del Nord e quello sovranista, Fratelli d’Italia non riesce più a drenare voti a Salvini. Il voto leghista del Nord è quello della borghesia imprenditoriale ma anche del ceto medio e operaio. Gente che vuole risposte su fisco, politica economica, previdenza. Non sa che cosa farsene del sovranismo. Non è quello che chiede alla Lega. E quando una coalizione è divisa si spartisce i candidati: questo a te, quello a me, il terzo a quell’altro. Non conta se è gente che ha possibilità di vincere nelle città. Basta che si rispettino le proporzioni tra i partiti».

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