Tentazioni texane nella destra italiana

L’audio in cui il candidato milanese minaccia di ritirarsi se i partiti non gli versano 50 mila euro cadauno dà una misura davvero misera del dibattito politico interno al centrodestra, e Bernardo fa bene a cercare il colpevole della diffusione, perché gli ha arrecato un danno di credibilità difficilmente colmabile. La bocciatura di numerose liste di sostegno al candidato napoletano Maresca per irregolarità nella presentazione, compresa quella dei leghisti, ha rivelato un pressappochismo che fa mal sperare nelle capacità amministrative del centrodestra partenopeo. E la fuga perenne di Michetti a Roma da ogni confronto con gli avversari, forse motivata dalla pessima prova data in pubblico in occasione del primo duello, fa il paio solo con l’analoga scelta del candidato del Pd Manfredi a Napoli, che pure è stato rettore di ateneo e non dovrebbe temere handicap di cultura e dialettica tali da disertare il dibattito democratico.

Ma il problema non è neanche questo: è il ballottaggio. Forze che radicalizzano il loro messaggio pagano infatti inevitabilmente il prezzo al secondo turno, perché favoriscono il coalizzarsi di tutti gli altri contro. E se questo turno amministrativo dovesse riconsegnare al Pd — senza particolari meriti di Letta e nemmeno dei suoi candidati — i sindaci di Roma, Napoli e forse perfino Torino, la destra pagherà un prezzo anche in termini di credibilità della sua candidatura al governo del Paese. Potrebbe infatti essere la prova di ciò che i moderati del centrodestra da tempo sostengono, e su cui anzi basano le loro rivendicazioni di centralità: che cioè Salvini e Meloni da soli non bastano per vincere le elezioni e guidare l’Italia, se qualcuno non garantisce per loro sul piano interno e internazionale. Fino all’elezione del nuovo capo dello Stato, questo scontro latente non si trasformerà in rottura, perché la speranza della candidatura Berlusconi tiene Forza Italia agganciata al resto della coalizione. Ma dopo, soprattutto se la partita del Quirinale dovesse andar male, non è da escludere una ben diversa geografia nella coalizione e nelle leadership del centrodestra prima delle prossime elezioni, presumibilmente nel 2023. In molti, a quel punto, non vorranno morire texani.

CORRIERE.IT

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