Per i referendum non basta un like

Vladimiro Zagrebelsky

Collocata in un provvedimento legislativo dedicato ad altro (alla realizzazione del Pnrr), il Parlamento ha approvato una modifica della legge del 1970 riguardante i referendum, i cui effetti vanno ben oltre la sola semplificazione delle procedure. Si tratta della ammissione delle firme digitali ai fini della promozione della richiesta dei referendum previsti dalla Costituzione e della presentazione di leggi di iniziativa popolare. Queste ultime possono essere promosse da 50mila elettori, mentre per i referendum abrogativi di leggi e per quelli confermativi di leggi di revisione costituzionale sono necessarie le firme di 500mila elettori. Prima della recente modifica, la raccolta delle firme avveniva di presenza, frequentemente nei banchetti organizzati dai promotori del referendum. Per essi si trattava di impegno molto oneroso, affidato a volontari e, fino all’ultimo, sospeso al rischio di non raggiungere il numero di firme sufficiente. Era però anche un momento di discussione e partecipazione, diffuso su tutto il territorio nazionale, che attirava l’attenzione anche dei cittadini che ritenevano di non firmare. Faceva cioè parte del dibattito preliminare al voto sul merito della proposta referendaria.

Ora la possibilità di firmare nella forma digitale, che in larga misura finirà per sostituire la forma tradizionale in presenza, accanto agli evidenti vantaggi che la rendono irreversibile, presenta anche i difetti che sono il contraltare delle nuove forme di partecipazione ed espressione. Esiste il rischio di facili firme digitali, simili a un qualunque improvviso ed emotivo like riferito all’occasionale intervento di un influencer, che lancia un prodotto. Il lancio di una iniziativa referendaria si presta all’uso di etichette improprie, che sostituiscono la comprensione della sua effettiva portata. Un esempio attuale può essere quello del pacchetto dei numerosi quesiti referendari in tema di giustizia, semplicisticamente presentato come referendum per la “giustizia giusta”. Chi potrebbe aver dubbi, se fosse proprio e semplicemente così? L’introduzione della firma digitale, che ciascuno, da solo, in un attimo lancia dal suo computer, non crea certo il problema della consapevolezza della firma, ma lo aumenta. È un aspetto dell’ampio fenomeno dei social media, che interviene nel campo complesso dei referendum: effetti della approvazione dei quesiti referendari, che sono solo abrogativi ma modificano l’insieme del sistema normativo, portata politica e sociale dei quesiti, ecc.

Con le firme digitali, il probabile annullamento dell’effetto selettivo che la Costituzione ha immaginato imponendo la condizione della 500mila firme, rende necessaria la discussione del sistema referendario nel suo complesso. Vi sono aspetti di dettaglio della disciplina, ma anche questioni di principio essenziali, che riguardano il ruolo della democrazia diretta (referendum) come momento di integrazione, controllo, competizione rispetto a quella rappresentativa di cui il Parlamento è espressione (con i partiti come cinghia di trasmissione di posizioni ed esigenze presenti nella società). Che quest’ultima sia in crisi è cosa evidente, non solo se si osserva la vita dei partiti, ma anche l’incapacità del Parlamento a svolgere il suo compito istituzionale: abbandonate o ritardate le leggi “divisive”, ignorate quelle richieste dalla Corte costituzionale per correggere situazioni di incostituzionalità delle leggi vigenti.

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