Afghanistan, corsa contro il tempo

PAOLO MASTROLILLI

DALL’INVIATO A NEW YORK. Kabul come Berlino. Anzi peggio, perché almeno durante il drammatico ponte aereo che all’inizio della Guerra Fredda salvò il settore occidentale della capitale tedesca dai sovietici, i soldati americani controllavano il territorio circostante. Nella città afghana invece sono circondati dai taleban, e la disperata corsa contro il tempo per evacuare i cittadini Usa e i loro alleati locali dipende da variabili fuori dal controllo di Washington, tipo la buona volontà dei nuovi padroni del Paese, e la speranza di evitare che gruppi terroristici approfittino del caos per colpire chi fugge. Finora, almeno, perché ieri il presidente Biden ha rivelato che «abbiamo allargato la zona di sicurezza intorno all’aeroporto. Sappiamo che i terroristi, come Isis, vorrebbero colpire. Speriamo di non dover estendere la scadenza del 31 agosto per l’evacuazione, ma ne stiamo discutendo». Quindi ha ringraziato l’Italia, tra gli alleati che lo stanno aiutando. Intanto l’Onu lancia l’allarme: l’Afghanistan affronterà una «catastrofe assoluta» con fame diffusa, persone senza casa e collasso economico a meno che non venga concordato un urgente sforzo umanitario.

Il parallelo con Berlino è giustificato dal fatto che ieri il Pentagono ha ordinato alle linee aeree civili di aiutare l’evacuazione. Per farlo ha invocato il Civil Reserve Air Fleet, un programma creato appunto nel 1952 per facilitare il ponte aereo sulla città tedesca, e poi usato altre due volte nella Guerra del Golfo e in Iraq. Il Pentagono ha richiesto in tutto diciotto aerei passeggeri: tre saranno forniti da American Airlines, Atlas Air, Delta Air Lines e Omni Air; due da Hawaiian Airlines; e quattro United Airlines. Non atterreranno direttamente nell’aeroporto Karzai di Kabul, che resta troppo pericoloso. Qui le operazioni continueranno a gestirle solo i militari, che con i loro mezzi faranno la spola tra l’Afghanistan e le basi americane in Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Qatar, per portare in salvo i cittadini americani, e soprattutto i circa 60.000 rifugiati locali costretti a fuggire per l’aiuto dato agli Usa. Le linee aeree civili subentreranno in questa fase dell’evacuazione, trasferendo i passeggeri nelle basi di passaggio individuate in Italia, Germania, Spagna ed altri paesi europei. I rifugiati poi proseguiranno verso uno dei 13 Paesi che hanno già accettato di ospitarli, oppure nelle basi individuate nel territorio degli Stati Uniti, che al momento sono Fort Lee in Virginia, Fort Bliss in Texas e Fort McCoy in Wisconsin. Presto però potrebbero aggiungersi la Joint Base McGuire-Dix-Lakehurst del New Jersey, Fort Pickett in Virginia, Camp Atterbury in Indiana, Camp Hunter Liggett in California, e Fort Chaffee in Arkansas. In caso di necessità, il Pentagono tiene aperta la possibilità di usare anche le sue basi in Italia, Germania, Giappone, Corea del Sud, Kosovo e Bahrain per ospitare i rifugiati. Il ponte intanto prosegue, e nelle ultime 24 ore sono state evacuate 3.900 persone a bordo di 23 voli, 14 condotti usando gli aerei da trasporto C-17 e 9 con i C-130.

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