La malattia di Camilla non indicata sulla scheda per il medico vaccinatore

Le fanno le analisi del sangue e una Tac. A quel punto i medici, stando a quanto risulta dai primi accertamenti, hanno un quadro definito negli elementi di base: Camilla ha fatto il vaccino, ha quella malattia, ha preso quelle medicine. La tengono per un’intera notte in osservazione. La dimettono il 4 giugno, dopo «remissione dei sintomi». Il giorno dopo peggiora di nuovo e alle 23.58 del 5 giugno entra in pronto soccorso, portata da un’ambulanza, al policlinico «San Martino» di Genova. A quel punto ha un coagulo del sangue che le ostruisce una vena. Rientrano i primari. Primo intervento d’urgenza, complicatissimo, «riuscito». L’ostruzione viene rimossa. Ma poi i neurochirurghi devono provare a gestire l’emorragia cerebrale. Altre ore in sala operatoria. La terapia intensiva. Giorni di attesa. «Abbiamo fatto l’impossibile». I genitori della ragazza, Roberto e Barbara, con l’altra figlia Beatrice, vengono «ospitati» in ospedale, assistiti da psicologi richiesti dal direttore Salvatore Giuffrida quando il quadro clinico diventa più nero. Ore drammatiche: 8 giugno, dal Savonese arriva un’altra donna, 34 anni, sintomi analoghi a quelli di Camilla, da poco vaccinata con AstraZeneca. L’«angiotac» è negativa, la ragazza parla e si muove, all’apparenza tranquilla, ma il «San Martino» è un ospedale di ricerca sulle neuro scienze e i medici notano qualcosa che non li convince negli esami del sangue. Ricoverano la donna in terapia intensiva, 4 ore e mezza dopo anche lei ha un trombo. Viene operata d’urgenza e oggi respira in autonomia. È salva (con tutte le cautele del caso). Sono due storie molto vicine, che si incrociano: i tempi di intervento e l’eccellenza di un ospedale fanno la differenza. La donna arrivata dopo è in vita; Camilla non ce l’ha fatta. I suoi organi hanno salvato altre persone. «Abbiamo acconsentito alla donazione perché è quel che lei avrebbe voluto», hanno detto i genitori.

CORRIERE.IT

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