Salviamo chi ci aiuta a Kabul

Pochi, abbiamo detto, sono coloro che prestano attenzione a come si sta concludendo la missione «Resolute Support» in Afghanistan. Tra questi Bernard-Henri Lévy che ha parlato di una «partenza priva di gloria», ha definito «inaudito» il modo con cui gli afghani vengono abbandonati al loro destino a conclusione per di più di quella che a lui appare come una «disfatta autoinflitta». Più o meno quel che — con eguale noncuranza — gli Stati Uniti hanno fatto pochissimo tempo fa con i curdi in Siria e in Iraq.

Il filosofo Michael Walzer ha proposto che gli Stati Uniti portino con sé tutti «gli uomini, le donne che, con le loro famiglie, sono a rischio di persecuzione, prigionia o morte». Soprattutto perché a causa di quella che ha definito «la nostra invasione». Persone che corrono dei pericoli «direttamente» perché «hanno collaborato con noi», oppure «indirettamente» perché «hanno manifestato per la democrazia, organizzato sindacati o aperto scuole per ragazzi». Una collaborazione che è avvenuta alla luce del sole proprio perché «sotto la nostra copertura». In tutto si tratta di settantamila persone che hanno già chiesto il visto per gli Stati Uniti. Quello di portarli via con noi, ha detto Walzer, è «un obbligo morale assoluto».

Sulla scia delle parole di Walzer, aggiungiamo che ci sono una cinquantina di interpreti che hanno prestato servizio per il contingente italiano e che ora — assieme ai loro familiari (in tutto circa quattrocento persone) — ci chiedono di essere accolti in Italia per non aver a subire conseguenze per l’aiuto che ci hanno dato. Sarebbe un bene che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini — il quale ha mostrato di essere a conoscenza di questo specifico problema — prendesse pubblicamente l’impegno a non abbandonare quelle persone a una sorte già segnata. Non vorremmo dover contare, in aggiunta agli oltre cinquanta caduti che lasciamo in quella terra, anche dei morti tra coloro che hanno lavorato per noi.

Una guerra che non si dà carico di un problema del genere è destinata a essere ricordata come un’esperienza poco onorevole. Averla persa sarà poca cosa in confronto all’onta di aver lasciato a pagare l’intero prezzo della sconfitta coloro che sono stati per due decenni al nostro fianco.

CORRIERE.IT

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