Terribili, folli, nuovi, creativi. Ecco cosa furono gli anni Venti

«E ciò che vuole provare a dirci la mostra è di sfruttare l’esperienza dei folli anni Venti per affidarci alla libertà creativa e non cadere negli errori che fecero sprofondare il mondo in una delle sue maggiori catastrofi, la Seconda guerra mondiale…». E speriamo che il parallelismo tra quegli anni Venti e i nostri finisca qua.

La mostra inizia con una frattura – «Addio al trauma della guerra» è il titolo della prima sezione, dove accanto a una coloratissima infilata di Léger, fra cui un magnifico Charlot cubista (1924), lo spettatore è costretto a guardare le fotografie dei volti dei soldati devastati dalle granate della guerra e poi, in quegli anni, ricostruiti grazie ai progressi straordinari della chirurgia facciale – e finisce con un «Desiderio», che è il titolo della settima sezione: una grande sala senza opere d’arte ma che è essa stessa una grande sala da ballo. Insegne al neon, rosso, proiezione di filmati d’epoca, tavolini che possono essere di un bistrot di Montparnasse o del «Moka Efti» di Berlino, musica dodecafonica ma anche jazz, charleston, chansons d’epoca, balli notturni e il mito «pop» di Josephine Baker, prima donna di colore a diventare una star dello spettacolo, ottenendo successo in Europa invece che negli Usa, il Paese d’origine, a causa della segregazione razziale: Black Lives Matter anni Venti.

E in mezzo un lungo viaggio attraverso le capitali più moderne dell’epoca, da Parigi a Berlino, da Zurigo a Vienna…

È un’Europa cambiata e una società moderna. Più di quanto siamo soliti pensare. Gli anni Venti significano l’affermazione graduale del suffragio femminile e la sfida alle abitudini sessuali convenzionali (ecco qui il bestseller parigino del ’22: il romanzo scandalo La garçonne di Victor Margueritte con le splendide illustrazioni di Kees van Dongen), significano usare il cinema e la fotografia dentro una dimensione artistica: le sperimentazioni di Man Ray e László Moholy-Nagy riempiono più di una parete. Significano una rivoluzione nella moda, che arriva fino a oggi (il «piccolo vestito nero» di Coco Chanel che nasce nel ’27 incarna l’espressione atemporale dell’eleganza femminile). Così come diete, sport ed esercizio fisico cambiano i corpi, e la testa. Il design e il Bauhaus trasformano le case e gli uffici (e chi le abita e chi ci lavora). Gli urbanisti le città. E gli artisti la percezione dello spazio e del paesaggio. Cioè del mondo.

Gli anni Venti che scorrono qui a Bilbao significano i collages di Max Ernst, le sculture essenziali di Constantin Brancusi, le «modelle per acconciature» di Grethe Jürgens, i fotogrammi muti di Metropolis (1927) di Fritz Lang, film-icona proiettato sulle pareti blu della seconda sala, la Città di Josef Albers (1928), il Valzer d’amore di René Magritte (1926), l’abito da cocktail in seta del ’28 di Madeleine Vionnet, la sedia rossa e blu di Gerrit T. Rietveld…

Gli anni Venti (quelli del ‘900 o i nostri?) uscirono da una catastrofe senza precedenti, tornarono a vivere ballando, conquistarono lo svago per le masse, imposero la visibilità di determinate minoranze, progettarono città nuove, ruppero molti tabù, e riconquistarono – dio sa quanto ne abbiamo bisogno anche noi – la libertà.

«Non ci fu mai un’epoca così avida di spettacolo come la nostra. Queste necessità di distrazione a ogni costo sono la reazione necessaria contro questa vita che facciamo, dura e piena di privazioni», lasciò scritto Fernand Léger un secolo fa, esatto.

IL GIORNALE

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