Caro Draghi, serve subito il colpo d’ala

massimo giannini

Il semplice “governo del Paese” muove i primi passi, e qua e là si colgono già paradossali indizi di una “Draghi fatigue”. Segnali minimi, ma tangibili, di una svolta che non si vede, di un nuovo che non avanza e di un vecchio che resiste. Quindici giorni dopo il giuramento e dieci giorni dopo la fiducia, l’Italia affronta la pandemia con gli stessi strumenti di sempre: i deprecati Dpcm. Il primo draghiano, in vigore dal 6 marzo, rinnova lo schema non sempre coerente di quelli contiani: regioni in tricolor e lockdown settoriali. Le scuole richiuderanno, cinema e musei riapriranno. Qual è la “ratio”? Nulla da fare per palestre e piscine, alle quali ora si aggiungeranno anche barbieri e parrucchieri. Qual è la logica? Sui treni locali la quota di riempimento resta al 50 per cento, sull’alta velocità no. Sugli aerei cresce il numero dei voli “Covid tested”, su tutti gli altri ci si assembra come sempre.

Qual è la differenza? Le restrizioni sono necessarie: il virus e le sue varianti tornano a minacciare la nostra salute. Ma devono essere spiegate: e invece nessuno ce le spiega. L’esecutivo era già costruito sull’equilibrio complesso tra due piani distinti e distanti: l’algida squadra dei tecnici che cucinano la torta del Recovery Plan con gli ingredienti della competenza, e l’allegra comitiva dei politici che si spartiscono le briciole ai tavoli della propaganda. Ora la mediocre accozzaglia dei sottosegretari crea delusione in chi si aspettava una volta-pagina radicale, e allarga il fossato che separa il “governo dei migliori” dal “sub-governo dei peggiori”. Lo staff di Palazzo Chigi fa trapelare un messaggio chiaro: la distribuzione e l’assegnazione degli incarichi di sottogoverno le hanno decise i partiti, il premier si è limitato a indicare solo i principi ispiratori di fondo (il cosiddetto “algoritmo Draghi”).

Capisco lo sforzo, ma segnalo un pericolo: fermi restando l’eccezione del suo status politico e l’estensione della sua base parlamentare, il governo resta pur sempre uno solo. E il presidente del Consiglio lo rappresenta tutto. Che gli piaccia o no, lo incarna in tutte le sue anime: quelle belle e quelle dannate.

Le differenze di stile, la sobrietà, l’arte del silenzio, sono un valore oggettivo in un Paese estenuato dal picaresco teatrino della politica. Ma non possono costituire un “altrove” nel quale il capo del governo si rifugia, mentre sul palco i partiti continuano a bastonarsi come pupi siciliani. In parte sta già succedendo. L’entrata in scena dell’ex presidente della Bce ha funzionato come potente Big Bang, scatenando terremoti a destra e bradisismi a sinistra. Ha scompaginato i resti dell’arrembante “bi-populismo perfetto” che alle elezioni del 2018 aveva sostituito il declinante “bipolarismo imperfetto”. Ma dopo appena due settimane si vede già con chiarezza l’immane rifondazione politica che c’è ora da compiere, mentre riaffiorano già le solite liti tra comari: Salvini contro Zingaretti, Zingaretti contro Renzi, Renzi contro Grillo, Grillo contro Dibba.

Il Capitano leghista fa l’europeista nei giorni pari e lo sfascista in quelli dispari. Al mattino, in felpa #ioapro, dichiara guerra a Speranza e ad Arcuri, ai virologi e ai politologi. Al pomeriggio, in giacca e cravatta, va da Draghi e fa la pace. Il giorno dopo ricomincia. E via così, in un’alternanza di codici che gli serve per puntare sull’ingresso nel popolarismo europeo grazie a Berlusconi, e per non lasciare il monopolio del sovranismo patriottico alla Meloni. Il Movimento consuma la sua transizione verso un assetto sorprendentemente “moderato e liberale”, come dice Di Maio, ma non sa ancora che uso fare di Conte né come completare una volta per tutte il suo passaggio all’età adulta, preferendo a un normale congresso con mozioni e candidature contrapposte il rituale ritrovo carbonaro convocato dal Capo Comico nel suo buen retiro di Bibbona. Il Pd, per contro, si dilania e il suo congresso lo fa permanente, tra lisergiche vocazioni maggioritarie e nostalgiche resistenze correntizie, eroiche battaglie di genere e patetiche infatuazioni d’ursiane. Il risultato, per il cittadino che guarda e che ascolta in platea, è una recita sguaiata, cacofonica, a tratti dadaista.

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