Draghi-Biden, bentornato Occidente

La stessa cosa si può dire per Draghi. Il nuovo inquilino di Palazzo Chigi, nelle dichiarazioni programmatiche in Parlamento e poi in quelle pronunciate al G7, riporta l’Italia agli onori del mondo. E non si tratta di depositare un ex voto a San Mario: con buona pace di chi fa la predica quotidiana ai “giornaloni” (non si sa ancora bene da quale pulpito), qui nessuno si illude che il nuovo premier farà miracoli. Più semplicemente, nel posizionamento geo-strategico, il Paese ritrova i suoi “ancoraggi storici” (la Ue, la Nato, l’Onu) e molla gli ormeggi pericolosi azzardati dai due precedenti governi (gli endorsement trumpiani a “Giuseppi”, le cene all’hotel Metropole di Salvini, le passeggiate sulle Vie della Seta di Di Maio). Sui vaccini, sulle strategie per la crescita, sul “climate change”, il nostro Paese torna a parlare con una voce credibile in Europa, col turno di presidenza del G-20, della COP-26 sul cambiamento climatico e della COP-15 sulla biodiversità.

Sul fronte interno, per usare la formula draghiana, non c’è nulla che faccia pensare che il nuovo governo possa far bene senza l’appoggio convinto dei partiti che lo sostengono. Ma gli servirà anche quello del “complesso istituzionale-ministeriale” (parafrasando Dwight Eisenhower). Il sistema degli apparatciki, gli uffici legislativi, gli adempimenti burocratici, i procedimenti normativi: insomma, il Leviatano che ha intralciato i percorsi realizzativi di tutti i governi repubblicani è sempre tra noi, immutato e immutabile. Non sarà facile conviverci, e anche questo spiega l’affondo del presidente del Consiglio alla Corte dei Conti, venerdì scorso. Senza semplificazione non c’è sviluppo. E questo vale anche per il Recovery Plan: quanto ci vorrà per far funzionare il nuovo ministero della Transizione ecologica ed energetica di Roberto Cingolani, che in queste ore brancola nel buio più totale? Lui stesso ne ha parlato a lungo al telefono con il premier, ieri mattina. L’ ex direttore generale del Tesoro conosce bene la “macchina”: c’è da sperare che sappia come farla correre, almeno alla stessa velocità con la quale ha fatto viaggiare la Bce, conquistando la stima e il rispetto unanime delle cancellerie.

Jason Horowitz, sul New York Times, coglie un elemento in più sul profilo del premier italiano: la sua “esperienza come statista è di per sé fondamentale, in un momento in cui l’Unione europea potrebbe essere sull’orlo di un vuoto di leadership”. Boris Johnson se n’è già andato, la Merkel se ne andrà a settembre e Macron se ne potrebbe andare alle presidenziali del 2022. Per chi ha a cuore i destini dell’Europa e dell’Italia, Draghi può essere “l’uomo giusto al momento giusto”. Nei prossimi mesi sapremo se è vero. Ma nel frattempo, dopo aver ascoltato il presidente americano e quello italiano, lasciatemi esprimere almeno questo sollievo democratico: “Bentornato, Occidente”.

LA STAMPA

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