Quel sogno di un Paese “normale”

massimo giannini

È raro, ma qualche volta nella vita i sogni si avverano. Io un sogno lo avevo fatto, e ne avevo scritto qui il primo novembre 2020. Avevo sognato “un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi”, con “le più autorevoli e prestigiose personalità politiche e tecniche di cui questo Paese dispone…”. Poi però mi dicevo che è inutile, che tanto Draghi non vuole, che la Grosse Koalition all’italiana diventa la solita ammucchiata, che con Salvini non la puoi fare, che in Parlamento non le voterebbero mai la fiducia, che basta governi non eletti dal popolo. Così mi ero svegliato con la solita delusione e la solita rassegnazione: per quanto inadeguato, il Conte Due non ha alternative.

Non avevo capito nulla. Il sogno può diventare realtà. Uno per uno, sembrano cadere gli ostacoli che mi frullavano per la testa. Draghi vuole, il suo governo non è una Grande Ammucchiata, lo puoi fare persino con Salvini, in Parlamento si profila una maggioranza larghissima, il popolo non ha votato ma forse stavolta capirà. Se il miracolo accadrà, due fattori lo avranno reso possibile. Il primo fattore è il “default” del sistema politico, che dopo una legislatura di trasformismi e 147 cambi di casacca si è infine arreso all’evidenza: saltato Conte, fusibile multiuso di qualunque maggioranza, il cortocircuito dei partiti non ha potuto generare altro, se non lampi di frenetico e patetico nulla. Il secondo fattore è il “bailout” di Sergio Mattarella, che ha messo in mora l’intero ceto politico, ha convinto Draghi a salvare la Patria e gli ha conferito un mandato chiaro come il sole: “Un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Il presidente incaricato sta eseguendo la missione. Ascolta molto, prende appunti.

Da giovedì scorso non ha ancora detto né fatto niente. Eppure in 3 giorni stanno succedendo cose che non succedevano da 30 anni. Indizi di una rivoluzione copernicana, di cui Draghi è il motore immobile e i partiti i corpi celesti in rotazione.

All’ex governatore della Bce dicono sì i Cinque Stelle, e già questa è una congiunzione astrale impensabile solo fino a pochi anni fa. Beppe Grillo scende dal canotto del Vaffa Day di Bologna, torna a Roma senza apriscatole, entra disarmato nel barattolo di tonno della Camera, si siede al tavolo di fronte a quello che fino al 2018 era Satana, parla con lui di programma e di squadra, dice “lui è come noi”, vede “le fragole mature”. Luigi Di Maio non ricorda neanche più il balcone di Palazzo Chigi e la postura da tribuno della plebe, non arringa più la sua gente urlando “abbiamo sconfitto la povertà”, la persuade dicendo “Draghi è credibile, M5S lo ascolti”, tiene anche lui famiglia e nei momenti difficili “la famiglia si deve ritrovare”. Gli ultimi giapponesi provano a resistere, Dibba mugugna, Lezzi borbotta. E certo, in quel cielo pentastellato restano i buchi neri, la pochezza culturale e l’indistinto identitario, la fugace democrazia interna e la tenace foga giustizialista. Ma una metamorfosi ormai pare quasi compiuta: la gioiosa macchina anti-politica che doveva asfaltare il sistema si sta facendo carico di ricostruirlo. Il Movimento che rivendicava la sua verginale e irriducibile autosufficienza oggi si inchina alla realtà e si sacrifica alle larghe intese. Più che imputargli la patente contraddizione, dobbiamo riconoscergli una stupefacente maturazione.

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