Maradona: gli ultimi giorni, l’operazione, le liti. E il testamento: «Il calcio mi ha dato tutto»

Perfino le continue rassicurazioni pubbliche successive all’intervento dello scorso 3 novembre per rimuovere un coagulo al cervello somigliavano più a una spietata operazione di marketing che a una reale ricostruzione della situazione. «Abbiamo notato nel processo di recupero post-operatorio alcuni episodi di confusione» aveva ammesso l’onnipresente dottor Leopoldo Luque, suo medico personale, salvo poi aggiungere «abbiamo anche ballato insieme». La verità è che non stava più bene, Diego. Nella testa e nel corpo. La depressione, la paura del Covid, la vistosa zoppia al ginocchio, infine l’operazione al cervello. Non era un caso che dopo l’intervento si fosse deciso di non farlo tornare nella sua casa di La Plata: troppo pericoloso restare tanto distanti dalla fidata clinica Olivos nel centro di Buenos Aires, dov’era stato operato. Il suo clan aveva così scelto di affittare una villa a Tigre, nell’elegante quartiere di San Andrés, a una quarantina di chilometri dalla capitale, in modo da poter raggiungere rapidamente l’ospedale nel caso di un peggioramento improvviso delle condizioni di salute. Esattamente ciò che è avvenuto. Solo che Maradona da quella casa non è uscito vivo. Inutili i tentativi di rianimazione effettuati dal personale medico che lo accudiva ventiquattr’ore al giorno.

Se l’è portato via un arresto cardiorespiratorio, verso le 12 argentine, le 16 italiane. A nulla è servito l’intervento delle ambulanze, nove, secondo quanto riporta La Nación. Quando sono arrivate, a sirene spiegate, svegliando la quiete primaverile dell’esclusivo quartiere che ospita le seconde case dei ricchi della capitale, sul fiume Tigre, l’ex Pibe de Oro era già deceduto. E pensare che al mattino si era svegliato bene, aveva fatto due passi in giardino, era stato visitato dallo psichiatra e dall’infermiera e tutto sembrava più o meno a posto. Poi è tornato a letto. E non si è più svegliato, scartando il mondo con un dribbling dei suoi, insieme divino e diabolico, «portandosi per sempre via il fútbol», come ha splendidamente scritto il Clarín, al quale un mese fa Diego aveva affidato il suo testamento spirituale: «Sono stato molto felice, il calcio mi ha dato tutto, più di quello che ho immaginato. Senza la droga, avrei potuto giocare e vincere molto di più»

L’epilogo non ha sorpreso chi gli era davvero vicino. «Ha bisogno di aiuto da parte della sua famiglia» aveva avvertito il suo psicologo Diego Diaz due settimane fa. La sua famiglia era però ormai lontana, da tempo, insieme ai giorni felici. Morti gli amati genitori, anche i rapporti con la prima moglie Claudia erano ormai interrotti. Si sentivano solo tramite avvocati, liti e insulti via social non facevano più nemmeno notizia. E difficilissimi erano anche i rapporti con le prime due figlie, Dalma e Giannina. Un anno fa Giannina, la seconda dei cinque figli avuti da quattro donne diverse, aveva lanciato un’accusa pesantissima verso la corte di Diego: «Stanno uccidendo mio padre». Che rispose seccamente, sempre via internet: «A te interessa solo l’eredità, ma non avrai un centesimo».

Il figlio Diego jr, avuto dalla napoletana Cristina Sinagra nel 1986, lo ha saputo dalla televisione italiana. Perfino lui ha faticato a superare la cortina di manager, avvocati e sedicenti uomini di fiducia per avere conferma certa della notizia della morte di suo padre.

Claudia, con Dalma e Giannina, sono state però le prime ad arrivare nella villa di Tigre, appena l’avvocato di Diego, Matias Morla, ha confermato la notizia. L’ultimo abbraccio a un uomo e un padre troppo grande, troppo ingombrante, troppo tutto per essere solo loro, solo di una squadra, solo di un popolo, solo di un mondo.

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