Elogio dell’impotenza

Il bollettino di guerra di lunedì 2 novembre recita così: “In ragione di queste sopravvenute evenienze (l’aumento dei contagi, ndr), si è reso necessario un nuovo corpus di misure restrittive. Per questo ho chiesto di poter anticipare già ad oggi queste mie comunicazioni affinché il Parlamento possa esprimersi prima del nuovo provvedimento”. Così Giuseppe Conte alla Camera, per illustrare il 23esimo dpcm dall’inizio della pandemia, quarto dopo le baldorie estive, meno di tre settimane da quello del 13 ottobre che prevedeva solo l’obbligo universale delle mascherine, prima dell’alata discussione sulle palestre della settimana successiva e sui bar solo giovedì scorso. Giovedì scorso, non un’eternità fa, quando la curva dei contagi non era cosi dissimile da oggi.

È la fotografia di una affannata rincorsa degli eventi, in questo piano inclinato di provvedimenti “usa e getta”, accompagnato dalla sensazione che ogni atto sia già superato dai fatti. Un lento scivolamento verso la misura più estrema, il lockdown, che nessuno, non solo l’Italia, si può permettere, ma che rischia di essere l’unica soluzione in un quadro ancor più estremo.

Si parva licet componere magnis, Churchill, paragone che andò di moda in una fase di questa crisi, alla Camera dei Comuni, proprio nell’ora più buia, osò. Perché è nella fase più drammatica che un leader comprende che non bastano i numeretti e i report ministeriali ed è lecito, oltre che necessario, scartare rispetto all’ordinario. Paragone ingeneroso, forse troppo. Però è davvero troppo poco questo copione già visto, in base al quale il premier va in Parlamento a cose grosso modo fatte, se non fosse che si deve attendere l’ultima lite con le Regioni per sapere se il coprifuoco è alle 21 come pare o alle 18, e in attesa del prossimo provvedimento che muterà ancora una volta l’orario, tra un’ordinanza di Musumeci, un’intemerata di De Luca e un’improvvida dichiarazione di Toti. 

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