“Mi chiamo Francesco Totti” è come il ‘ Ben Hur’ del Capitano

Passa per l’ostracismo di Bianchi, che commise l’errore di dire: “O me o lui”, e per Zeman, “che mi ha strutturato fisicamente”. Contano meno i gol che i sentimenti in gioco: quando la Lazio vinse lo scudetto “per un po’ di giorni non sono uscito di casa”. C’è l’escalation di popolarità personale, di idolatria, che il 17 giugno 2001 provocò un’invasione di campo a rischio di annullamento partita, e quello storico spogliarello di Sabrina Ferilli al Circo Massimo. “Ma io penso che la gente in quel momento non è che stava a pensare allo spogliarello della Ferilli, con tutto il rispetto! “.

Per i tifosi della sua età è vita vissuta sulla propria pelle, compreso l’amore per Ilary Blasi sbandierato al Derby della primavera 2002 via maglietta: “6 unica”. “Ma dovevo segnare : se quel giorno non avessi segnato magari non ci saremmo sposati”.

Il montaggio gioca d’arguzia sulla rinuncia all’offerta faraonica del Real Madrid e sui “farisei” evocati dal sacerdote quando Totti si sposa : “Ma come faccio a andar via da Roma?” Questa città piena di bellezze che ormai gli sono precluse, pena pedaggi sfiancanti di autografi e selfie: “Non so’ più Francesco, so’ diventato un monumento pure io”.

Infascelli, da regista, si è fatto le ossa (bene, sono una sua antica fan) con gli horror, ma è riuscito a fare un documentario sull’irraggiungibile Kubrick bussando al suo autista. Misurarsi con Francesco Totti al confronto è una passeggiata: per uno così ogni secondo di vita è documentato. Figuriamoci l’incidente in campo, l’operazione, la riabilitazione e il trionfale exploit dei Mondiali.

L’autocritica c’è: sul carattere, sugli scatti di rabbia di cui si vergogna. “Sono chiuso, riservato, timido, ma un romanticone. Però quando sto lì mi trasformo: esco da Francesco e divento Totti”. Zero autocritica invece sul triste finale di carriera con Spalletti allenatore. Il grumo di rancore è lì e lo tortura come un macigno, anche se i tifosi più equanimi gli contestano di aver anteposto se stesso alla squadra. Manca ovviamente, nel film, l’altra campana.

C’è Baglioni, con “Solo”, a commentare il suo ingresso nell’Olimpico dell’addio, in lacrime, in piedi. È la sua ultima partita. Al posto delle bighe di “Ben Hur” c’è il pallone. Non fa differenza. La Storia è Storia, e con il Re non si scherza.

L’HUFFPOST

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