La sfida di Beppe Severgnini: cinquanta motivi per i neoitaliani

Abbiamo coltivato la fama di geniali inaffidabili. L’affidabilità, in Italia, è una qualità inconsapevole. Una delle molte di una nazione che teme gli elogi, quasi le rovinassero la reputazione. Sappiamo essere seri, ma lo ammettiamo malvolentieri. Poi arrivano i giorni del virus e dello spavento, e ci scopriamo diversi. Più solidi, coesi e reattivi.

Provate a dirlo in giro. Vi risponderanno che siamo rimasti una banda di individualisti, rassegnati e menefreghisti. Ci sono anche quelli in Italia, e non sono pochi. La maggioranza risponde alle sfide protestando, accusando, sospettando, lamentandosi. Ma risponde. Ne sono successe troppe, in questo lungo e vecchio Paese: se fossimo incapaci di reagire, dell’Italia non esisterebbe più neppure l’idea. C’è una traccia di ottimismo, nel nostro carattere nazionale, di cui andiamo segretamente orgogliosi. «L’uomo che non si illude è assennato a suo danno» sosteneva sant’Agostino. Si vede che eravamo così fin da allora.

Perché siamo imprevedibili, se non diventiamo inaffidabili

Anni fa, in occasione di un incontro pubblico negli Stati Uniti, mi hanno chiesto di riassumere l’Italia in una frase. Ho risposto: «Né inferno né paradiso. Un purgatorio fascinoso pieno di anime irrequiete, ognuna convinta di essere speciale». Ecco: le anime in questione hanno dimostrato che le persone speciali, in tempi eccezionali, si salvano facendo cose normali. Per esempio, rispettando le regole.

Molti dubitavano che ne saremmo stati capaci. I pregiudizi sono duri a morire. Esiste, su di noi, un sospetto metodico di inaffidabilità. In un’intervista con National Public Radio (Npr), all’inizio del lockdown, non mi sono trattenuto: invece di dubitare che noi in Italia ce la faremo, perché voi in America non cominciate a organizzarvi? Anche perché negli Stati Uniti non avete il nostro servizio sanitario nazionale, dove tutti vengono curati, senza domande prima e senza fatture dopo.

Abbiamo avuto paura, quando l’epidemia avanzava? E se anche fosse? La paura, spesso, è una forma di saggezza. L’incoscienza, quasi sempre, una prova di immaturità. Se siamo riusciti a non perdere la testa, mentre molti intorno a noi sembravano averla persa; se abbiamo saputo aver fiducia in noi stessi, nonostante tutto e tutti; se abbiamo tenuto conto dello scetticismo del mondo, smentendolo con i fatti, allora forse possiamo dire: noi siamo italiani.
Non sottovalutateci mai.

Perché sappiamo d’istinto cos’è buono e genuino

Una marca italiana di caffè, subito dopo il lockdown, ha riempito le vetrine dei bar con un cartello che diceva: «Distanti il giusto, uniti nel gusto». Diciamo che, tra le due affermazioni, la seconda è più convincente, e più facile da verificare.

La distanza fisica — che chiamiamo, chissà perché, «distanza sociale» — dovrebbe essere un fenomeno passeggero, e ha dato luogo a numerose interpretazioni. L’unità nazionale in fatto di gusto è invece fuori discussione. Ci sono differenze individuali e geografiche, ma la competenza alimentare degli italiani attraversa le classi di reddito, ed è evidente. Nessun Paese al mondo può vantare la stessa varietà e qualità della materia prima, la stessa fantasia in cucina, la stessa conoscenza diffusa. Un italiano non pensa che una pietanza sia buona e una pasta sia cotta a dovere. Lo sa.

Perché siamo indulgenti con imbroglioni e incompetenti, ma li riconosciamo subito

Anche l’incompetenza è una caratteristica che raramente ci sfugge. Un Paese di artigiani talentuosi — con i pensieri, le parole, i suoni, le immagini, le pietanze, le cose, le idee — non può non riconoscere un apprendista presuntuoso. Eppure, in anni recenti, qualcuno ha provato a convincerci che la conoscenza fosse una colpa — pensate a certi populisti, ai complottisti, ai tecnofobi — e molti hanno finito per crederci.

Lo spavento del coronavirus dovrebbe averci convinto che gli esperti servono. Aggrediti da un nemico invisibile, ci siamo affidati a medici, infermieri, scienziati e decisori politici (nel silenzio imbarazzato di stregoni e no-vax, che a emergenza rientrata hanno ripreso a farneticare). Ma anche per decidere se introdurre il reddito di cittadinanza, per valutare l’impatto di una linea ferroviaria o per salvare una compagnia aerea — sì, la solita — sarebbe stato opportuno affidarsi a chi conosce il mercato del lavoro, le ferrovie, il trasporto aereo. Non basta che una persona sia onesta, perché faccia bene il proprio lavoro. Dev’essere competente.

Perché amiamo confondere chi ci giudica

L’assenza di violenza politica è un vanto e un credito che noi italiani dovremmo spendere in Europa e oltre. A chi tratta la nostra democrazia con sufficienza, ricordiamo che in Italia i violenti organizzati non invadono la capitale per mesi di seguito, com’è successo in Francia; che i contrasti sull’autonomia non sfociano in scontri e arresti, com’è accaduto in Spagna; che la nostra vita collettiva non è segnata da stragi e sparatorie, come negli Usa. Il nostro disgusto per la violenza è evidente anche al momento del voto: gli estremisti picchiatori — qualcuno ce n’è — prendono percentuali infime.

Ho spiegato, ogni volta che ho potuto: c’è un aspetto operistico, nella vita politica italiana. Quante volte il soprano minaccia di buttarsi dalla torre o trafiggersi col pugnale? Poi, non lo fa. Gli italiani litigano in maniera spettacolare (in Parlamento, in televisione, al Festival di Sanremo, nei bar e nelle case, dove capita); ma, al momento delle decisioni, la maggioranza mostra una cautela sorprendente. Sappiamo che l’Europa è casa nostra. Sappiamo che i nostri alleati stanno a Bruxelles, a Londra e a Washington, non a Mosca. Sappiamo che la violenza fa schifo e non porta da nessuna parte, perché l’abbiamo conosciuta.

Perché ogni tanto ci cadono le braccia, ma poi le tiriamo su

Cosa dobbiamo augurarci? Che le persone ragionevoli mostrino coraggio. Essere moderati non è sufficiente. Chi crede nel progresso, nella collaborazione e nella società aperta deve farsi sentire. Deve osare. La gestione spaventata di tante piccole crisi non basta più. Anzi: non è mai bastata.

Essere moderati non significa essere ignavi, vuol dire essere lungimiranti. Le conquiste sociali che ci rendono orgogliosi — il servizio sanitario nazionale, l’istruzione pubblica, la previdenza sociale, la magistratura non soggetta al potere politico — sono arrivate in Occidente dopo grandi traumi: dittature o guerre. Anche oggi, in Italia, ci sono cose importanti da fare. La scuola, la sanità, la pubblica amministrazione e la giustizia hanno bisogno di essere aggiornate, semplificate, sveltite. Il sistema fiscale è un tessuto liso pieno di rammendi: va sostituito. La rete ferroviaria e stradale va rimodernata. Il territorio italiano è fragile, e occorre intervenire con urgenza.

Non aspettiamo il cataclisma, per muoverci. Le braccia non si sollevano da sole: bisogna tirarle su. Siamo troppo intelligenti per non capirlo.

Perché siamo quello che gli altri vorrebbero essere, e non osano

La bellezza non è un privilegio. La bellezza non è un paravento. La bellezza non è un’attenuante. La bellezza italiana è una responsabilità. È un concetto semplice, e al mondo risulta chiaro. All’Italia e a noi italiani, non altrettanto. Chi parla di bellezza, spesso, intende coprire una serie di brutture: nel paesaggio e nella programmazione, nella manutenzione e nella gestione.

Troppi italiani giustificano la meschinità dei comportamenti con lo splendore dei propositi. Un’ipocrisia che ci è costata cara, in termini di reputazione. L’opinione pubblica internazionale non è sofisticata. Se diciamo «L’Italia non funziona come dovrebbe, però è tanto bella!», qualcuno applaudirà. Ma quegli applausi assolvono e distraggono; non servono. La bellezza, come ogni eredità importante, richiede impegno. La spettacolare varietà umana, climatica, paesaggistica, artistica e alimentare del nostro Paese non può essere solo un ritornello sulla bocca di cittadini rassegnati o un’attenuante per amministratori furbi e politici sciatti. La bellezza è muta: non può difendersi, quando viene offesa. Tocca a noi reagire.

Gli appuntamenti a Mantova, Camogli e Pordenonelegge

In occasione dell’uscita del suo libro Neoitaliani, dall’8 settembre in libreria per Rizzoli, Beppe Severgnini incontrerà i suoi lettori in diversi appuntamenti. Si comincia il 9 settembre, al Festivaletteratura di Mantova, dove l’autore prima parteciperà all’incontro «PPP. Pezzi di passato prossimo» (ore 18, Ospedale Carlo Poma, piazzale d’ingresso, accesso libero) e poi in serata dialogherà con Stefano Scansani sul «Perché siamo cambiati» (alle 21 in piazza Castello). Sabato 12 settembre sarà a Camogli per parlare di Neoitaliani al Festival della Comunicazione (ore 17, piazza Ido Battistone). Due gli appuntamenti al festival Pordenonelegge: venerdì 18 settembre Severgnini parlerà del libro con Valentina Gasparet (ore 21, Teatro Verdi di Maniago) e, il giorno dopo, sabato 19 settembre, sarà protagonista dell’incontro «50 motivi per essere italiani» (ore 11,30 in piazza San Marco, a Pordenone).

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