La sfida di Beppe Severgnini: cinquanta motivi per i neoitaliani

di BEPPE SEVERGNINI

La sfida di Beppe Severgnini: cinquanta motivi per i neoitaliani

Roma, 25 aprile 2020: alla Garbatella si festeggia la Liberazione in lockdown cantando dai balconi (foto Claudio Guaitoli) shadow

Dalla bufera siamo usciti diversi. Peggiori o migliori? Direi: non siamo andati indietro. A modo nostro, siamo andati avanti. La pandemia ci ha costretto a trovare dentro di noi — nelle nostre città, nelle nostre famiglie, nelle nostre teste, nel nostro cuore — risorse che non sapevamo di possedere. Non perché siamo sciocchi, ma perché eravamo distratti e litigiosi. La storia dimostra che le società umane crollano per distrazione, mollezza, capricci. La dittatura del superfluo non proclama la legge marziale, non sfila impettita per le strade. Vince senza combattere, dopo averci infiacchito.

Quello che state per leggere è un libro cui pensavo da tempo. Ho cercato di riassumere la nazione quindici anni fa, a beneficio degli stranieri. La testa degli italiani (Rizzoli 2005) è stato tradotto in quattordici lingue, ma è servito come specchio anche a molti connazionali. L’immagine riflessa non è piaciuta a tutti; e qualcuno se l’è presa con l’autore che reggeva lo specchio. Ma la maggioranza dei lettori italiani ha capito cosa avevo provato a fare: una sintesi onesta e affettuosa. I due aggettivi non sono incompatibili.

La stagione virale che abbiamo attraversato ha cambiato diverse cose; altre erano già cambiate nel corso degli ultimi anni. È tempo di raccontare i Neoitaliani, ho pensato. La pandemia è una macchina della verità. Non soltanto ha rivelato chi siamo; ci ha consentito di pensare a chi potremmo essere. Abbiamo imparato qualcosa, come individui e come collettività. Certo, sono lezioni che avremmo voluto apprendere in un altro modo. Ma la vita, quando decide di insegnarci qualcosa, non chiede il permesso.
Ecco alcuni dei cinquanta motivi per essere italiani.

Perché sappiamo essere seri, ma lo ammettiamo malvolentieri

Quarant’anni fa, quando per distrarmi dagli studi di giurisprudenza scrivevo per «La Provincia» di Cremona, tenevo una rubrica settimanale intitolata Parlar sul Serio. Un prevedibile gioco di parole — Serio è il nome del fiume che attraversa Crema — ma un gioco, per così dire, accurato. Siamo seri, dalle nostre parti, come sanno essere seri gli italiani. Ma ci scoccia ammetterlo.

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