Di Maio, il desiderio di un partito dei moderati e «l’amico» Renzi (più che Di Battista)

di Tommaso Labate

«Io voglio fare il partito dei moderati», ripete all’infinito da settimane, proseguendo in quell’opera di riposizionamento e di auto-revisionismo che lo fa assomigliare, giorno dopo giorno, a poco meno di un lontano parente del vicepremier gialloverde che l’anno scorso volava in Francia per incontrare i leader dei gilet gialli in compagnia di Alessandro Di Battista. Adesso i suoi interlocutori sono altri. Come Mario Draghi, incontrato in gran segreto qualche settimana fa, di cui parlando ieri col Foglio ha detto che sì, «mi ha fatto un’ottima impressione», come se le parti dell’esaminando e dell’esaminato — ove mai ci fossero state — si fossero invertite come d’improvviso. O Angela Merkel, incrociata nelle vesti di ministro degli Esteri alla Conferenza di Berlino, che a lui si sarebbe rivolta dicendogli «Di Maio, ho sentito parlare bene di lei, mi parlano bene del suo lavoro».
Ecco, il lavoro di Luigi Di Maio, oggi, è quello di costruire un «partito dei moderati». Trasformare il suo partito, a prescindere dalla ragione sociale Movimento Cinque Stelle (a quella, come ama ripetere Beppe Grillo in privato, in futuro si può anche rinunciare), in una forza in grado di catalizzare l’elettorato oggi conteso da Berlusconi, Renzi, Calenda e anche dal Pd. Con Davide Casaleggio l’interlocuzione è azzerata; idem con Di Battista, che al ministro degli Esteri torna utile come spauracchio («Alessandro è una risorsa, eh?») tutte le volte che deve marcare stretto Giuseppe Conte. Forte del sostegno della stragrande maggioranza dei maggiorenti del Movimento, gli restano da dribblare sia il premier sia Beppe Grillo, che a seconda della fase sono ora alleati ora avversari. Con dinamiche tra l’impercettibile e l’incomprensibile, proprio come capitava nella geopolitica di correnti in perenne movimento della vecchia Democrazia cristiana. Già, la Dc. Quell’immagine rimastagli appiccicata come una chewing gum sotto la suola delle scarpe — un po’ per l’aria pacata, un po’ per l’abito blu sfoggiato anche durante il pranzo casalingo di Pasquetta, un po’ per una serie di altri dettagli che a occhio nudo ne fanno più un nativo democristiano che un millennial — Di Maio l’ha trasformata in una compagna di strada, di quelle che sono più piacevoli che fastidiose. «In molti la dipingono come un perfetto democristiano.

Le dispiace?», gli chiese una volta Lilli Gruber. «Dipende a quale tipo di democristiano si riferiscono. Se mi danno del Cirino Pomicino, sarebbe offensivo», rispose lui. «E se le dessero del De Gasperi?». «Non ne sarei degno. Ma sarebbe un complimento».

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