Il Paese che rifiuta i concorsi

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di   Sabino Cassese

Il Paese che rifiuta i concorsi

Come vengono scelti, in Italia, i funzionari pubblici? E come sono valutati e promossi? Come fanno carriera? La Costituzione dà una risposta sintetica ma chiara a queste domande, con la parola «concorso», che vuol dire competizione aperta a tutti e gara perché vengano scelti i migliori. Quindi, eguaglianza e merito. La competizione serve a consentire un accesso a tutti i cittadini; la verifica a scegliere chi si dimostra più competente, capace ed esperto.

Sulla norma costituzionale si è esercitata più volte la Corte costituzionale. Ha stabilito, ad esempio, che il conferimento di incarichi dirigenziali pubblici deve avvenire previo esperimento di concorso pubblico e che il concorso è necessario anche nei casi di nuovo inquadramento dei dipendenti già in servizio per l’accesso a funzioni più elevate.

Ma le agenzie fiscali non la pensano nello stesso modo. Per sottrarsi al chiaro dettato costituzionale e a una sentenza del 2015 della Corte costituzionale, hanno cambiato nome ai dirigenti, chiamandoli «Posizioni organizzative di elevata responsabilità» (Poer), e quindi stabilito che a quelle posizioni si accede solo dall’interno. I compiti sono gli stessi, cambia il nome. «Ego te baptizo piscem» era la formula liturgica per aggirare nei conventi medievali la regola dell’astinenza dalle carni il venerdì. Maestri nell’invenzione linguistica, i dirigenti delle agenzie fiscali, aiutati dal legislatore, non hanno trasformato la carne in pesce, ma «titolarizzato» circa 1.500 dipendenti, sfuggendo sia alla Costituzione, sia a una sentenza della Corte costituzionale.

Ma la Corte costituzionale, l’organo che avrebbe dovuto stabilire che era carne e non pesce, con una sentenza dei giorni scorsi ha dato credito al cambiamento di nome e quindi ha ceduto anch’essa al corporativismo degli agenti del fisco.

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