Tutti all’ultimo banco nella scuola dimenticata

Fra i 37 Stati dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, siamo con vergogna all’ultimo posto per spesa pubblica destinata all’istruzione: 6,9 % del totale (gli Usa, quasi il doppio; il Cile addirittura il triplo). Abbiamo il più basso tasso di laureati d’Europa (dopo la Romania) e uno dei più alti di abbandono scolastico (un milione in 10 anni). Record negativo anche per gli stipendi dei docenti, gli «artigiani delle generazioni future», secondo la felice immagine di Papa Francesco: tutti abbondantemente sotto media Ocse, dalle elementari alle superiori. Se si fa la media di tutto, non suona strano che il 20 % dei nostri giovani (16-29 anni) abbia capacità di lettura considerate minime. E non è più vero che non è mai troppo tardi.

Le nostre 41 mila scuole sono in gran parte vecchie, ammalorate, concentrate in grandi plessi da oltre mille studenti (con un solo preside per tutti, una condanna più che una cattedra, e aule ingestibili da 30 alunni) invece che distribuite in piccole unità educative sul territorio. Il corpo docente (dagli impiegati ai bidelli) è intorno al milione, con 700 mila insegnanti, di cui 200 mila precari, picco storico. E il conto lo pagano un po’ tutti, a cominciare dalle categorie più esposte, più vulnerabili, con moltissimi disabili ormai privati degli indispensabili insegnanti di sostegno, per carenza di personale e di competenze.

A fine dicembre 2019 si era dimesso il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, deputato Cinquestelle e professore di Economia politica: esaminata la situazione, aveva chiesto dei fondi che non gli erano stati concessi. Allora, prima del virus, riteneva indispensabili 3 miliardi di finanziamento strutturale. Nell’ultimo Decreto Rilancio, quindi post virus, alla scuola, questa scuola italiana, sono stati destinati 1 miliardo e 400 milioni, la metà di quelli per Alitalia. La metafora dell’iceberg non pare esagerata. Rileggete per favore con calma questi numeri: la loro somma è lo zero che la nostra classe dirigente, il nostro governo, le nostre istituzioni, stanno pensando di investire sul futuro degli italiani che hanno più futuro davanti. Ed è una ipoteca di cui dovranno rendere conto, senza alibi da pandemia che possa giustificare una visione così miope, una sottrazione di apprendimento e socialità a danno delle generazioni che hanno tutti i diritti di poter vivere in un’Italia attenta anche ai loro, di diritti.

In una scuola pubblica elementare e media del centro di Roma, il Visconti, hanno formato una commissione mista tra genitori, docenti e preside, che per qualche settimana ha lavorato intensamente per studiare come riaprire a settembre rispettando distanziamento fisico e misure di sicurezza varie. La loro conclusione, affidata a un messaggio in bottiglia, è disarmante: servono più spazi e più docenti, altrimenti avremo la catastrofe di una scuola dimezzata. Il che significa dimezzare uno dei pochi baluardi contro la disparità sociale, l’ignoranza, la decadenza culturale e civile di un Paese. Da ultimi in graduatoria europea, a ultimi e dimezzati.

All’alba della nostra Repubblica, un padre della Patria come Pietro Calamandrei disse parole definitive sulla questione: «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola, a lungo andare, è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale». La scuola è più importante, anche se da Villa Pamphilj e dintorni non si direbbe.

CORRIERE.IT

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