Recovery fund, l’idea di un fisco comune per finanziare il patto tra Merkel e Macron

Olanda, Austria, Danimarca e Svezia continueranno a opporsi all’idea franco-tedesca, per il momento. Italia, Spagna, Portogallo continueranno a chiedere di più — in tacita intesa con Parigi — sapendo che il punto di caduta alla fine non potrà che essere nel mezzo. Vicino a dove Merkel e Macron lo hanno indicato, una volta fatta qualche concessione all’Aia sui rimborsi di parte dei suoi contributi al bilancio di Bruxelles.

Più interessante è la deliberata vaghezza del presidente francese su un dettaglio essenziale: cosa c’è dietro il nuovo debito europeo, chi lo finanzia e come. Lunedì Macron si è limitato a dire che il denaro «può essere rimborsato dagli Stati membri, da contributi su cui potremmo scegliere di decidere più avanti o da un altro meccanismo». Tutto è in divenire. Ma gli indizi che la Germania e la Francia stiano riflettendo a nuove forme di tassazione europea — non più solo nazionale — sono ovunque. Dietro l’idea di un debito comune della Commissione c’è quella di entrate comuni europee: è l’embrione di un’entità statuale che tassi e spenda e sia soggetta a un proprio parlamento, a Strasburgo. Ieri a Die Zeit Olaf Scholz, il ministro delle Finanze di Berlino, ha richiamato l’esempio di Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro americano che nel 1790 caricò sulla federazione i debiti contratti dagli Stati nella guerra d’indipendenza. «Mise insieme poteri di raccolta delle entrate e di indebitamento del governo centrale», ha detto. Socialdemocratico, Scholz su questo terreno si muove più a suo agio da quando i nuovi leader del suo partito, Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, hanno espresso un’apertura.

In una riunione di nove ore, Scholz avrebbe avuto il permesso di Merkel a lavorare all’idea di tasse europee per finanziare quel che di fatto è un eurobond. Le impronte di quest’idea di prelievi fiscali da trasferire dal livello nazionale alle «risorse proprie» di Bruxelles (in base all’articolo 311 del Trattato) sono visibili nel documento franco-tedesco di lunedì: vi si parla di un «Emission Trading Scheme» (le aziende pagano per quanto inquinano) da ampliare potenzialmente a aviazione e nautica; si fa riferimento alle tasse da far pagare ai colossi digitali e a una tassa societaria minima europea, in contrasto ai paradisi fiscali di Olanda o Irlanda; si richiama l’unione dei mercati dei capitali, che implica prelievi comuni dei profitti sugli investimenti.

La strada resta da percorrere, ma è aperta. Per l’Italia significa più risorse europee per investimenti pubblici — potenzialmente il 50% in più quest’anno e un raddoppio in ciascuno dei prossimi due — unite a più controlli di Bruxelles su un principio di fondo: se vuole ricevere i trasferimenti di bilancio, il Paese deve mettersi in grado di spenderli con più efficienza. Oppure rinuncia a tutto, in piena autonomia, e resta quello che è.

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