Spesa e Salute, riusciremo a fare centro?

In sostanza, nel 2020, la spesa sanitaria crescerà — se aggiungiamo anche ciò che era stato previsto da provvedimenti precedenti, in particolare il Cura Italia — di quasi 7 miliardi. «In due mesi il governo — commenta Domenico Mantoan, direttore generale della Sanità e del Sociale della Regione Veneto e presidente dell’Aifa, l’agenzia del farmaco — ha dato all’intero settore una cifra pari a quella stanziata negli ultimi quattro anni. E la metà ce la ritroveremo tutta come spesa corrente. Dunque, il Servizio sanitario nazionale impegnerà poco più di 120 miliardi l’anno. Se poi si dovesse accedere al prestito previsto dal Mes, ci troveremmo a gestire tra Stato e Regioni un capitale cospicuo, enorme. Con quale disegno? Quale l’impatto sul territorio? Quale la garanzia di efficienza nella spesa?».

La voce di Mantoan non è secondaria nel dibattito sull’emergenza Covid. La Regione Veneto ha dimostrato di aver contrastato meglio e per tempo, grazie alla sua medicina territoriale e alla tempestività delle diagnosi, la diffusione del virus. Se c’è un modello che ha funzionato è quello veneto. Ma l’Italia ha 21 sistemi regionali e provinciali. A seconda della gravità della crisi, le risposte sono state diverse. Anche sotto il profilo dei modelli gestionali.

In questi mesi di assoluta emergenza, la necessità di dotarsi di dispositivi di protezione individuale, ventilatori (15 mila euro di costo medio) e di allestire in fretta posti letto di terapia intensiva (130 mila euro l’uno) ha messo in secondo piano il tema dell’efficienza della spesa. Inevitabile. Ma è accaduto anche che siano state stipulate velocemente convenzioni con gli operatori privati forse non strettamente indispensabili. E così è avvenuto sul versante delle assunzioni anche in Regioni a basso contagio.

Le maglie di bilancio si sono allargate ovunque. Del resto la legge 42 del 2009 quella sul federalismo fiscale (da cui la vecchia polemica sul costo delle siringhe tra le varie Regioni) è rimasta di fatto lettera morta. E non possiamo dimenticarci che, negli ultimi anni, ben sette gestioni regionali della Sanità sono state commissariate o sottoposte a piani di rientro. Non erano gestioni impeccabili. Come sanno ormai anche i sassi (solo nel nostro Paese vi è stata una discussione così strumentale e disinformata) l’accesso al prestito del Meccanismo europeo di stabilità, a tassi vicini allo zero, avrebbe come condizione il suo impiego limitato alle spese sanitarie «dirette e indirette» legate al coronavirus e alla prevenzione in futuro delle epidemie. La decisione di ricorrere al prestito del Mes non è stata ancora presa ma è probabile che il governo sarà costretto a farlo.

Le strategie

E, dunque, come li spenderemmo quei soldi? «La principale distinzione che si dovrebbe fare — è l’opinione di Francesco Longo del Cergas-Bocconi — è quella fra spesa in conto capitale e e spesa corrente. Se si contrae un debito, come è il Mes, bisognerebbe privilegiare gli investimenti. La spesa in conto capitale è pari a 60 euro per abitante contro i 1900 euro di quella corrente. La nostra dotazione tecnologica è obsoleta. È stata ammortizzata già al 90 per cento, vuol dire che ha quasi esaurito il suo ciclo vitale. Abbiamo troppe apparecchiature, spesso superate e usate poco. Ne dovremmo avere di meno, più moderne e usate di più. Gli ospedali piccoli sono in eccesso. Una buona parte delle strutture è in immobili vetusti. Un ospedale nuovo può arrivare a risparmiare fino al 15 per cento della spesa corrente». I nuovi investimenti dovrebbero essere concentrati soprattutto per rafforzare la rete dei medici di base.

«La decisione di riservare un miliardo e 500 milioni alla medicina territoriale — spiega Vincenzo Atella, docente di Economia all’Università di Roma Tor Vergata — va sicuramente nella direzione giusta ma mi chiedo se ci sia un progetto coerente, di respiro nazionale, in grado di costruire in breve tempo un sistema di allerta della salute pubblica in Italia, con dati dei medici di base scambiati in tempo reale in cloud e in modo da avvertirci per tempo dell’insorgere di infezioni. Se ci fosse stato avremmo avuto sei o sette giorni di vantaggio nella lotta al coronavirus».

«I 46 mila medici di medicina generale —aggiunge Claudio Cricelli, presidente della società italiana di medicina generale — sono altrettante sentinelle sul territorio ma sono stati di fatto sempre estranei al Servizio sanitario nazionale. Non siamo una parte ben integrata. Si parla ancora oggi di ospedale e territorio come fossero due entità separate. Se si investisse, per esempio, sulle nostre apparecchiature, si tratterebbe di una spesa, non di un investimento, a differenza di quello che avviene per una struttura ospedaliera. Il nostro contratto di lavoro poi, da liberi professionisti, è parasubordinato». Il sistema di allerta attualmente allo studio coinvolge 2.500 medici di base che hanno in cura un campione omogeneo di circa 4 milioni di persone. «Se avessimo avuto in questa pandemia — conclude Cricelli — un sistema di segnalazione attraverso la diagnostica precoce avremmo avuto meno ricoveri e casi gravi».

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