I soldi che non arrivano e la svolta necessaria

di Federico Fubini

All’inizio di marzo del 1933 l’industria italiana vacillava dopo aver perso un quarto della produzione in due anni. In Germania la disoccupazione di massa aveva appena portato Hitler al potere e in Gran Bretagna ormai un adulto ogni cinque era senza lavoro. John Maynard Keynes mandò al Times di Londra un articolo dall’attacco sconcertante: «Se la nostra povertà fosse dovuta a una carestia, a un terremoto o a una guerra, se difettassimo di beni materiali e delle risorse per produrli, gli unici modi per tornare alla prosperità sarebbero il duro lavoro, l’astinenza e l’inventiva. In realtà, le nostre difficoltà derivano da qualche guasto nei meccanismi immateriali della mente (…). È come se due automobilisti, incontrandosi a un incrocio, fossero incapaci di passare perché nessuno dei due conosce il codice stradale. Nulla è richiesto e nient’altro servirà se non un piccolo, lucido ragionamento».

Provocatorio allora, un approccio del genere oggi suonerebbe scandaloso. Le economie occidentali e l’Italia sono davvero nella morsa di una calamità, non sappiamo bene se naturale o prodotta dall’uomo. Eppure questa non è una ragione sufficiente per rinunciare a un «piccolo ragionamento» su dove siamo e come potremmo uscire di qui. Siamo a un punto in cui la strategia italiana per l’economia si è data due direttrici di fondo: una risposta rapida del governo per far arrivare liquidità alle imprese e alle persone, tenendo così in vita il tessuto sociale e produttivo durante il coma indotto dall’obbligo di fermare il virus; e la richiesta di una risposta europea per far sì che lo Stato e le imprese possano finanziarsi facilmente e a basso costo, e per mettere a disposizione dell’Italia circa duecento miliardi di risorse comuni europee da investire nella ricostruzione.

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