Coronavirus: Alzano e Nembro, sei giorni di rinvii. Inchiesta sull’ecatombe nella Bergamasca

«Dall’ospedale di Alzano qualcuno avrebbe dovuto almeno avvisare dell’esistenza di un pericolo micidiale. Invece hanno lasciato che la gente andasse avanti e indietro ancora per un’altra settimana, dal Pronto soccorso agli ambulatori. Era pieno di anziani che andavano a fare l’esame del sangue. Hanno fatto una ecatombe». Zambonelli usa parole tanto semplici quanto essenziali. Suo padre Gianfranco è deceduto di coronavirus il 13 marzo. Sua zia Luciana, 72 anni, che in quei giorni si alternava con lui in ospedale, lo ha seguito due giorni dopo. Orlandi e Acerbis sono entrambi morti. Come la donna che aveva il letto di fronte, come quasi tutti gli altri.

Il primo ritardo sull’ospedale

Nessuno vuole intestarsi la colpa della mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo, da cui si è propagato il virus che ha fatto strage in quel paese, e in tutta la Val Seriana. A oggi, Alzano Lombardo conta 177 contagi, Nembro 207. In tutta la provincia di Bergamo i morti sono 2.378. Non esiste un vero e proprio protocollo che preveda un evento così estremo. Ma sono due le istituzioni che hanno l’autorità per decidere la serrata. La prima è l’Ats locale, alla quale spetta un parere non vincolante, la seconda, superiore per autorità, è la Regione, della quale ogni istituto di cura rappresenta un presidio territoriale e come tale viene classificato.

A quella vicenda è legata un’altra decisione mancata, forse ancora più importante, almeno come peso politico. Perché non è mai stata istituita una zona rossa nella provincia di Bergamo? Le uniche risposte finora sono state molto generiche. Il distretto industriale di Alzano-Nembro è uno dei primi cinque d’Italia per Comuni sotto i trecentomila abitanti. Secondo i dati di Confindustria Bergamo, una eventuale zona rossa avrebbe riguardato 376 aziende, con una forza lavoro che varia dai 120 agli ottocento dipendenti, per complessivi 850 milioni di euro annuali di fatturato. Ma l’ultima parola spetta sempre alla politica. Al governo regionale, a quello nazionale. Avevano entrambi la possibilità di intervenire. Ma per sei giorni, dal 3 al nove marzo, nessuno si è assunto l’onere di farlo.

Una decisione che spettava alla politica

La corrispondenza privata governo-Regione, e una nota interna a Palazzo Chigi, consentono di ricostruire quanto è avvenuto. E aiutano a capire come mai per istituire la zona rossa intorno a Codogno ci siano volute meno di 24 ore, con l’ordinanza firmata dal presidente della Lombardia Attilio Fontana e dal ministro dalla Sanità Roberto Speranza che blindava in entrata e in uscita dieci paesi del lodigiano, mentre per la provincia di Bergamo non sia bastata una settimana, a fronte di dati molto più allarmanti. A questo ritardo non è estraneo lo spirito di quel breve lasso di tempo. Ancora lo scorso 2 marzo l’assessore al Welfare lombardo, Giulio Gallera, esprimeva forti dubbi sull’utilità di una zona rossa. Ma sono molti i casi di esponenti politici che hanno adottato un doppio registro. Lo stesso Fontana mette la sua firma su richieste molto prudenti, mentre in pubblico usa spesso toni più interventisti. Meglio stare alle carte, quindi. I primi cinque report quotidiani che a partire dalla mattina del 21 febbraio la Regione Lombardia invia alla Protezione civile non fanno alcun cenno alla situazione della provincia di Bergamo. Per quasi una settimana, in calce al documento verranno indicati i focolai identificati fino a quel momento. Ne sono sempre citati quattro, tutti nel lodigiano. Eppure già il 27 febbraio appare evidente che in provincia di Bergamo qualcosa sta andando come peggio non potrebbe. Settantadue nuovi casi di positività, diciannove dei quali, e tre decessi, fanno di Nembro il quarto Comune più colpito di Lombardia, alla pari con Casalpusterlengo, che insieme agli altri tre è nella zona rossa.

Il verbale e le richieste del Comitato

La progressione sembra inarrestabile. Le denunce pubbliche e le richieste di aiuto dagli ospedali bergamaschi si moltiplicano. Il 29 febbraio Nembro conta 25 nuovi casi, Alzano altri dodici, l’intera provincia sfonda quota cento. Quel giorno, la Confindustria di Bergamo pubblica il video «Bergamo is running», rilanciato dal sindaco Giorgio Gori. Ma è l’intera classe dirigente del Nord, con poche eccezioni, a essere in modalità «riapriamo tutto, o quasi». La Regione Lombardia invoca misure più restrittive, ma non giunge mai a chiedere in modo ufficiale l’istituzione di una zona rossa. Sembra che ci si arrivi di comune accordo il 3 marzo, 423 contagiati nella provincia, 58 a Nembro e 26 ad Alzano, con una scelta affidata comunque al parere degli scienziati.

Dal verbale di quel giorno del Comitato tecnico scientifico (Cts) che segue per il governo l’emergenza Covid-19: «Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Istituto superiore di Sanità i dati relativi ai due Comuni sopramenzionati, poi esaminati dal Cts. Al proposito sono stati sentiti al telefono l’assessore Giulio Gallera e il direttore generale Luigi Cajazzo di Regione Lombardia che confermano i dati (…) Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della “Zona Rossa” al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». L’Unità di crisi della Lombardia invia una mail a Silvio Brusaferro, direttore dell’Istituto superiore di Sanità, con una mappa dettagliata della diffusione del virus in tutta la provincia di Bergamo. Quella sera, appaiono in Val Seriana alcune camionette dell’esercito. Sembra il preludio alla chiusura totale.

Invece non succede niente. Il 4 marzo, quando le vittime in Italia superano quota cento, il premier Giuseppe Conte firma un nuovo decreto che prevede in tutto il Paese lo stop fino al 15 marzo per università, scuole, teatri, cinema. «Con specifico riferimento alla proposta avanzata dal Comitato tecnico-scientifico relativa ai due Comuni della Provincia di Bergamo», comunque già «assoggettati» a misure più restrittive di quelle applicate sul territorio nazionale con il decreto varato il primo marzo, il presidente del Consiglio chiede ai suoi esperti «di approfondire» le ragioni della loro richiesta di una zona rossa per Alzano e Nembro. Cosa è accaduto di nuovo? Che in Lombardia sta andando tutto male: «Il quadro epidemiologico dei giorni 3 e 4 marzo restituiva una situazione ormai critica in diverse aree della regione». A Bergamo 33 casi, a Lodi 38, a Cremona già 76, a Crema 27, nel comune di Zogno altri 23, a Soresina e Maleo diciannove. Eppure a Palazzo Chigi «appariva necessario acquisire ulteriori elementi per decidere se estendere la “zona rossa” a questi due soli comuni oppure, in presenza di un contagio ormai diffuso in buona parte della Lombardia, estendere il regime all’intera Regione Lombardia e alle altre aree interessate».

L’ultima riunione per il decreto

Brusaferro risponde nella serata del 5 marzo, con una nota scritta. E insiste. «Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa». Venerdì 6 marzo Conte va di persona alla Protezione civile, dove incontra i membri del Comitato scientifico per la decisione definitiva. Non se ne fa nulla. Passa infatti la linea di «superare la distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa». Si arriva così al 7 marzo, con l’annuncio alle due di notte della chiusura dell’Italia intera, e il decreto firmato la sera dell’8 marzo ed entrato in vigore il giorno seguente, quando Alzano conta 55 contagiati, Nembro 107, la provincia di Bergamo 1245, per tacere dei morti. La Lombardia è zona rossa, come il resto del Paese. Da quella prima richiesta sono passati ormai sei giorni.

Un’altra nota interna di palazzo Chigi sembra fare riferimento proprio a possibili dispute sul mancato provvedimento. «Quanto alle competenze e ai poteri della Regione Lombardia, si fa presente che le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti». E di seguito si citano i provvedimenti con misure ancora più restrittive varati di recente dalla giunta di Fontana. Un modo per dire che se la Lombardia pensava davvero che la zona rossa di Alzano e Nembro andasse creata prima, avrebbe potuto farlo in piena autonomia, così come l’hanno fatto Lazio, Basilicata, Emilia-Romagna, con ordinanze limitate al territorio di specifici comuni. A Zambonelli e alla sua famiglia non è mai stato fatto alcun tampone. La Regione e la Ats locale non hanno ancora risposto alle domande rivolte dalCorriere di Bergamo sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo.

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