Le cinque lezioni

La seconda lezione riguarda il rapporto Stato-Regioni. È chiaro che serve più flessibilità, l’emergenza ha colpito in modo molto difforme, e dunque ha ragione la Lombardia a chiedere più autonomia per poter fare concorsi e spese quando servono. Allo stesso tempo serve più coordinamento, perché in un’emergenza nazionale decide il governo centrale, e non può accadere che ciascuna Regione pretenda di stabilire se e quando chiudere le scuole, oppure se e come comunicare i dati. Si tratta quindi di riprendere, mettendolo fuori dalla contesa politica, un lavoro di riordino del titolo V della Costituzione, riforma che tutti ritengono necessaria ma che di volta in volta è stata contestata e affossata perché infilata dentro progetti politici più ampi e divisivi (sia con Berlusconi sia con Renzi).

La terza lezione riguarda il cosiddetto «digital divide». Chiunque abbia partecipato ieri allo sforzo dei figli e dei loro insegnanti per replicare da casa un giorno di scuola, utilizzando piattaforme come Google Classroom, può capire quanto elevato sia il pericolo di una nuova disuguaglianza digitale. Solo i ragazzi che hanno un computer a casa, una connessione veloce, un genitore a disposizione per aiuti e chiarimenti, possono stare al passo di questa innovazione. Anche in un solo mese di scuole chiuse possono aprirsi divari molto ampi tra ragazzi che hanno e ragazzi che non hanno. Una nuova povertà educativa si profila, e bisogna agire con urgenza, sopratutto al Sud, per scongiurarlo.

La quarta lezione riguarda la comunicazione (e di conseguenza l’informazione). Il messaggio del governo, degli enti territoriali, degli ospedali, degli esperti, è stato finora troppo frammentato e contraddittorio, se non addirittura caotico, talvolta influenzato dalle esigenze della lotta politica (come nel caso delle polemiche iniziali tra Palazzo Chigi e Regione Lombardia), e condizionato dalla inevitabile voglia di apparire dei politici. È indispensabile trovare forme «neutrali» di comunicazione istituzionale, forse inventandosi una figura unica di «informatore» ufficiale nelle emergenze, che depoliticizzi il messaggio e tenga briefing quotidiani, autorevoli perché unici e «coperti» dalla autorità politica.

La quinta lezione, la più difficile da apprendere se lo si fa in un paese solo, riguarda l’Europa unita. Il suo nucleo originario, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nacque proprio per affrontare quella che allora era un’emergenza: porre fine alle guerre tra Germania e Francia. Questo è il senso profondo dell’Unione: mettere insieme più paesi, tutti piccoli, per avere una risposta di scala maggiore a problemi che sono grandi e globali. Ma questa capacità sembra essersi smarrita. Di fronte alle grandi emergenze del XXI secolo, terrorismo islamico, migrazioni, epidemia, l’intervento dell’Unione si è dimostrato costantemente al di sotto delle potenzialità, e su questo punto ha già detto tutto Maurizio Ferrera sul Corriere di ieri, chiedendosi: «Quale emergenza più grande del Coronavirus vogliamo aspettare» per mettere mano a una riforma radicale del modo in cui funziona l’Europa?

Credo che nell’immediato futuro anche la competizione politica nel nostro Paese cambierà profondamente. Il rinvio del referendum potrebbe essere solo l’inizio di un calendario nuovo e di un tempo diverso. Partiti e leader verranno giudicati da come si saranno comportati di fronte alla più grande emergenza dalla guerra a oggi, e da ciò che sapranno dire su come fronteggiare quelle che ci riserverà il futuro. Serviranno meno chiacchiere e più progetti, meno promesse e più impegni: dunque una vera e propria riconversione per la politica italiana.

CORRIERE.IT

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