“Sullo smart working l’Italia è molto indietro, ma questa crisi può diventare un’opportunità”. Parla Giampietro Castano

Franco Velcich

Giampietro Castano. Imagoeconomica

Smart working, smart working”. Nella bufera del coronavirus che rischia di danneggiare drammaticamente l’economia italiana, queste due paroline sono state ripetute un’infinità di volte, come una specie di formula magica capace di allontanare la tempesta.

A ben vedere nell’anno 2020 non c’è nulla di magico nel lavorare da casa, o da qualsiasi altra ubicazione scelta dal lavoratore, ma in Italia sono ancora poche le aziende e le persone che utilizzano questa possibilità.

I numeri di Eurostat lo certificano: mentre in Europa l’11,6% dei dipendenti lavora da casa, abitualmente o saltuariamente, con picchi del 30% in Svezia e in Olanda, in Italia la percentuale è solo del 2%, pari a 354mila persone (dati della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro).

Scoppiata l’emergenza del coronavirus, le persone hanno paura di viaggiare: temono il contagio annidato nei treni, negli autobus e nelle metropolitane. E’ a questo punto che le aziende scoprono che l’attività può andare avanti anche con gli uffici vuoti.

Secondo Manageritalia, in questi giorni  in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli ed Emilia circa un milione di persone stanno lavorando da casa, e per quasi tutti è una novità. La paura del contagio ha fatto cadere un velo rendendo improvvisamente evidente questa grande opportunità. A questo punto è lecito domandarsi perché c’è questo ritardo italiano e, soprattutto, chiedersi se quando sarà passata l’emergenza lo smart working potrà trovare una migliore cittadinanza in Italia.

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