Coronavirus, così due medici cinesi spiegano gli errori dei primi giorni

Le vicende di due medici riassumono questa storia che sarà oggetto di innumerevoli inchieste e studi scientifici.
«Siamo soldati che si muovono sul campo di battaglia, ogni tipo di proiettile vola intorno a noi», dice ora il dottor Wang Guangfa, primario di medicina polmonare alla Peking University della capitale. Non lo dice per vantarsi di essere stato al fronte del virus, anche se incautamente lo ha fatto. Wang ammette di aver sbagliato nelle prime previsioni epidemiologiche. Aveva diagnosticato che il virus non si sarebbe diffuso tra persone, ma solo dalla carne infetta del mercato di Wuhan, da quell’animale «serbatoio» ancora non individuato con sicurezza: serpente, pipistrello? Il professor Wang era andato a Wuhan, da Pechino, dopo metà gennaio, e aveva annunciato che il contagio poteva essere «prevenuto e contenuto». La chiusura del brutto mercato di Wuhan sarebbe bastata. Il sindaco lo aveva già fatto fare a inizio gennaio, e furono cancellate anche le «impronte digitali» del virus, la carne dell’animale che ha causato la prima infezione. Poi erano ripresi i grandi preparativi per il Capodanno lunare, anche un grande banchetto per 10 mila famiglie a spese dell’amministrazione locale.

Pochi giorni dopo, in piena epidemia, Wang, tornato a Pechino, scoprì di essere stato contagiato anche lui, durante la missione in un ospedale del ground zero dello Hubei. Non aveva preso precauzioni. Superbia dottorale e sfortuna hanno dato al virus più tempo per diffondersi. Wang in un’intervista alla stampa cinese ora dice di aver sottovalutato i primi sintomi, di aver pensato a una comune influenza e di aver ritardato gli esami. Lo hanno ricoverato, giovedì lo hanno dimesso. Salvo e pentito.

C’erano medici ospedalieri a Wuhan, che da fine dicembre credevano di aver individuato la «misteriosa polmonite» di cui parlavano le autorità. Avevano lanciato su una chat il dubbio che si trattasse di un ritorno della Sars debellata nel 2003. Il leader del gruppo era il giovane dottor Li Wenliang, specialista di oftalmologia. Che c’entra l’oftalmologia con il virus? Secondo l’allarme di Li, proprio nel suo reparto erano ricoverati in isolamento sette pazienti con sintomi polmonari gravi. Era il 30 dicembre. Uno screenshot del suo post ha cominciato a circolare: la censura cinese è sempre occhiuta e teme le voci vere e presunte (allo stesso modo le prime e le seconde). Le autorità di Wuhan hanno mandato la polizia ad ammonire i «propagatori di voci» e hanno oscurato la loro chat online. Erano otto quei medici. Breve detenzione per interrogatorio, del dottor Li, poi rilascio e processo per chiudere il caso. Nel frattempo anche Li è stato contagiato da un paziente, ma si è già ripreso. E ora è stato vendicato. La Corte suprema del popolo cinese ha detto che non ha «fabbricato notizie». E, in modo ipocrita, nella sentenza si osserva che comunque aveva sbagliato diagnosi perché non era Sars, ma un nuovo coronavirus sconosciuto.

Il Global Times, giornale comunista e nazionalista di Pechino, conclude che «in retrospettiva, dovremmo elogiarli altamente, erano stati saggi».
La Cina si vanta della sua saggezza millenaria, ma è afflitta dal virus dell’opacità e della burocrazia statale. Terreno di coltura fertile per il virus. E l’imperatore Xi Jinping, sconfitto il «demone virus», dovrà affrontare la realtà che lo circonda e che il sistema del Partito-Stato ha coltivato.

CORRIERE.IT

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