Le tensioni e il sollievo

Come bersagli sono state scelte due basi nelle quali i militari Usa sono ben protetti, mentre l’Iraq e i Paesi, come Finlandia e Lituania, che hanno loro uomini in quelle installazioni sono stati informati in anticipo. Le cancellerie e i mercati tirano un sospiro di sollievo. Scarsa enfasi anche sul Boeing caduto a Teheran: un massacro e tanti sospetti ai quali è stata per ora messa la sordina. Cessato allarme? Per ora è stato evitato il conflitto e nei fumi di una situazione che rimane esplosiva, si comincia a intravedere un possibile sentiero di de-escalation. Un sentiero stretto e tortuoso, esposto alle possibili vendette indirette dell’Iran attraverso gli hezbollah e le altre milizie alleate sparse in vari Paesi, ma anche alle imprevedibili reazioni di Trump in caso di nuovi colpi di mano di Teheran. Rimane, infine, la grande incognita nucleare, con la concreta possibilità di blitz in grado di incendiare tutta la regione qualora l’Iran riprenda il suo programma per dotarsi di armi atomiche.

La reazione pacata dei mercati, col prezzo del petrolio salito di poco rispetto a quanto avvenuto durante crisi precedenti di minore gravità, porterebbe ad accreditare la tesi di un suo disinnesco. In realtà a calmierare il prezzo del greggio c’è l’enorme aumento della produzione americani di idrocarburi – più che raddoppiata negli ultimi dieci anni, mentre gli operatori probabilmente si aspettano che, in caso di eccessive pressioni al rialzo dei prezzi, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi petroliferi del mondo arabo alleati degli Usa contro l’Iran svolgano una funzione di calmiere. Siamo comunque entrati in una nuova fase di tensioni estreme che non sarà di breve durata e sulla quale peseranno l’imprevedibilità di Trump, la sua tendenza a prendere decisioni unilaterali, spesso impulsive, ma anche le ambiguità del regime di Teheran. Ieri le rassicurazioni del ministro degli Esteri, Javad Zarif («abbiamo attuato e concluso una rappresaglia adeguata, non vogliamo un’escalation del conflitto»), sono state seguite da quelle, di segno opposto, della guida suprema Ali Khamenei: «Abbiamo dato agli americani solo uno schiaffo: non può bastare». Certo, anche in Iran, come negli Stati Uniti, il linguaggio della politica segue un doppio binario: quello incendiario di Khamenei serve a galvanizzare il popolo sciita che si sente assediato, mentre Zarif parla ai governi stranieri.

Sul fronte americano le incertezze riguardano soprattutto il succedersi di mosse contraddittorie di Trump che non disorientano solo i suoi nemici, ma seminano malessere e incertezza anche tra i militari e diplomatici americani e perfino alla Casa Bianca. Basti pensare all’ipotesi avanzata e poi ritirata di colpire i siti culturali dell’Iran o al possibile ritiro delle forze alleate dall’Iraq, escluso drasticamente da Trump, poi preparato a Bagdad dai capi della task force americana, infine di nuovo negato dal Pentagono. Il dato politicamente più impressionante è l’incongruenza della minaccia di Trump di imporre sanzioni economiche micidiali contro un governo di Bagdad che chiede il ritiro americano dal Paese, anche se questo Paese è tuttora tenuto in piedi dagli enormi sostegni economici erogati dagli Stati Uniti.

Qual è la strategia di Trump? Ce n’è ancora una, visto che era perfettamente prevedibile che l’eliminazione di Soleimani avrebbe danneggiato gli interessi americani sui due fronti più importanti, portando a una rottura col governo iracheno e a una ripresa del programma nucleare iraniano?

Le certezze, oggi, sono solo due: a contenere gli istinti del presidente non ci sono più i generali e i professional di lungo corso che lo avevano affiancato nella prima parte del suo mandato presidenziale. E poi anche in situazioni di questa gravità Trump è guidato soprattutto dal desiderio di non apparire debole o vulnerabile. Si spiega solo così il suo cambiamento di rotta rispetto a qualche mese fa, quando, nonostante la pressione del Segretario di Stato Pompeo, si rifiutò di colpire l’Iran per l’abbattimento di un drone americano. Pensava di essere elogiato per la sua saggezza: rimase malissimo quando la sua fu interpretata come una ritirata. E, dopo l’assedio all’ambasciata Usa di Bagdad, i fantasmi degli ostaggi di 40 anni fa e dell’assassinio dell’ambasciatore Stevens a Bengasi l’hanno spinto ad agire.

CORRIERE.IT

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