Giuseppe Conte ora è un modello: di destra, di sinistra. E di niente

Imprenditore con hotel e ristoranti, presidente della Federalberghi umbra, tutt’altro che inviso a cattolici e associazionismo, rapporti strettissimi con il sindaco di Norcia, il civico-azzurro Nicola Alemanno (che ha votato), amico della coordinatrice forzista Catia Polidori, sostenitore della campagna elettorale Fi Arianna Verucci per le europee, Bianconi ha compiutamente espresso il suo profilo nella prima intervista, rilasciata a Repubblica. Una triade perfettamente contiana: 1. «Ho detto sì perché ho sempre cercato di contribuire al cambiamento»; 2. «Voto per le persone che mi piacciono e mi convincono, mai per lo stesso partito»; 3. «Nella mia famiglia facciamo gli albergatori da sei generazioni, dal 1850, siamo abituati a servire senza essere servi». Viva il cambiamento, andiamo oltre destra e sinistra, cerchiamo di accontentare i clienti: gli manca insomma solo la pochette.

Perché ormai sono finiti i tempi in cui dire «ho sempre votato a sinistra/a destra» era un valore: adesso vale la versatilità, la morbidezza. La capacità di mediazione, anche con sé: sostenevi un’idea? Bene, adesso sostieni l’opposto. Il Giuseppe Conte originale, della sua capacità avvocatesca di riuscirci ha fornito mirabile prova in aula al Senato il 20 agosto, nel momento in cui ha virato se stesso di 180 gradi, auto-scolpendosi come il primo degli anti-salviniani: una interpretazione strepitosa, che infatti continua voluttuosamente a proporre: «Abbiamo fatto più a Malta in un giorno di Salvini in un anno », si è vantato dopo il patto Ue sui migranti – trattando Salvini come un suo predecessore, invece che come un suo ex-vice. L’umbro Bianconi, da questo punto di vista, è alle prime armi. Come «Giuseppi» fu gestito dai suoi due vicepremier, lui si trova ancora in mano al grillino Andrea Liberati e al dem Walter Verini, proconsoli in terra umbra di Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti. Per scrivere il programma, scegliere i nomi, un po’ per tutto.

Cambiano le sfumature cromatiche, il compito impossibile resta: tenere insieme alleanze bizzarre e improbabili. Adesso, modello Conte I ma coi colori cambiati, Bianconi è chiamato a fare da apripista all’alleanza demo-grillina, contro la leghista Donatella Tesei, la prima a poter conquistare la regione dopo cinquant’anni di governi rossi. Si è messo d’impegno, ha imparato già a rispondere a tono aumentando vieppiù la caratura contiana: «Ho sempre votato per partiti diversi, anche se non mi ricordo chi, alle politiche», ha chiarito al Fatto nella sua seconda intervista. Il governo del «non so, non ricordo» come massimo obiettivo.

L’invasione degli Ultraconte, la copertina dell’Espresso in edicola da domenica 28 settembre

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Tutto questo è destinato a replicarsi per Emilia e Calabria, dove si voterà il 26 gennaio e dove di conseguenza si attendono dei nuovi, piccoli, Conte. Nella regione rossa per eccellenza, dove la Lega è in crescita e il Pd arranca, il duello è già avviato. E lo schema iper-civico che, in Umbria, ha finito per lasciare a casa il presidente di Confcooperative Andrea Fora proposto dal Pd, e la sindaca di Assisi Stefania Proietti proposta dai cinque stelle, in Emilia potrebbe finire per schiacciare il governatore uscente e coordinatore regionale, Stefano Bonaccini, pur fan ante-litteram dell’alleanza giallo-rossa. Le schermaglie sono già cominciate, tra una Marina Sereni e una Roberta Lombardi, tra il Pd che dice «c’è tempo per ragionare» e i Cinque stelle che puntualizzano «si valuterà caso per caso» e alzano il veto a Bonaccini, come hanno già fatto il casaleggiano Max Bugani e il deputato Davide Zanichelli. Mentre l’intera impalcatura giallorossa resta ancora in bilico tra l’alleanza organica vagheggiata da Dario Franceschini per il Pd e da Vincenzo Spadafora per i Cinque stelle, il nulla in cui potrebbe precipitare all’improvviso come già accaduto all’alleanza coi leghisti.

Ad ogni buon conto, se funziona servirà anche un Conte per la Calabria. Qualcuno avanza il nome di Filippo Callipo, l’imprenditore del tonno che si candidò già dieci anni fa a governatore (era un civico sostenuto dall’Italia dei valori e dalla lista Pannella-Bonino, prese il 10 per cento) e che adesso è dato in avvicinamento ai giallorossi anche attraverso la nomina a sottosegretaria alla Cultura della parlamentare grillina Anna Laura Orrico, che prima di raccontarsi come «project manager del cambiamento» aveva coordinato la campagna elettorale proprio di Callipo. Si vedrà, le cose marciano veloci. Addirittura, a sentire Marianna Madia bisognerà trovare un Conte anche per Roma: «Per un dialogo cittadino Pd-M5s la Raggi deve dimettersi», ha detto l’ex ministra, già veltroniana, lettiana, renziana, ora zingarettiana e quindi come al solito perfettamente alla moda.
Tanti piccoli Conte da una parte, un Conte ubiquo dall’altra. Chi l’avrebbe detto che dal cuore del cambiamento, quello inneggiato dai Cinque stelle ai tempi in cui erano alleati con la Lega, sarebbe sorto il cuore antichissimo del trasformismo? Appena il tempo di farsi dare la fiducia in Parlamento e nominare i sottosegretari, e Giuseppe Conte si è prodotto in un tour con pochi precedenti nella storia.

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Un tour di parole, oltreché di luoghi. A Roma al Mattatoio di Testaccio, si è mischiato con gli ex comunisti di Leu, i volontari col grembiulone bianco e gli spiedi, le bandiere rosse, le salsicce grigliate, ha ricordato come fece nelle prime sue dichiarazioni che «tradizionalmente il suo cuore ha battuto a sinistra», e quanto all’oggi ha detto di «fidarsi» del Pd (così come il suo predecessore a Palazzo Chigi Massimo D’Alema, prima di ascoltarlo seduto in prima fila, ha confermato di «fidarsi» di lui). Due giorni dopo, sempre a Roma, il presidente del Consiglio si è infilato tra gli ex missini di Fratelli D’Italia, dove ha spiegato che, sì, la sinistra, ma mica da comunista eh: da «cattolico democratico». E, poco dopo, sintonico con la platea, ha chiarito che comunque il primo ministro ungherese Orbán più che da criticare per la posizione sui migranti è da invidiare, perché non ha il problema del mare: «Quando parlo con Orbán, gli dico sempre: parli facile tu che hai un confine terrestre. Se fossi qui, al mio posto…». Autentica posizione di un cattolico democratico, no?

Una disinvoltura da restarci di stucco, ipnotizzati. Come quella con la quale il premier pattina tra una citazione del «New Green Deal», dimostrando così di ignorare la derivazione dal New Deal – un po’ come se dicesse che ha avviato un «Piano Nuovo Marshall» contro l’evasione fiscale . E poi addenta un hamburger a Madison Square Park per fare il verso a Salvini. E poi attacca Salvini, come se non avesse firmato proprio lui tutti i provvedimenti di stampo leghista. E poi esalta enfatico il nuovo progetto sulla distribuzione automatica dei migranti, utilizzando però le stesse parole pronunciate a Salisburgo un anno fa, come ha mostrato Omnibus ritrasmettendo i due spezzoni. E poi racconta felice la strabiliante trovata della lotteria degli scontrini, una specie di rieducazione a premi per l’evasore fiscale che giace da decenni in un angolo di Palazzo Chigi, nel cestino «quando non sai più che inventarti pesca qua».

Talmente capace, Conte, di prendere le forme di chi si trova di fronte da provocare nei cronisti accorsi al Teatro Apollo di Lecce per il confronto col segretario della Cgil Maurizio Landini la seguente domanda: è la Cgil che la pensa come Giuseppe Conte, o è Conte che la pensa come la Cgil? Nell’infinita moltiplicazione dei Conte, finirà per essercene uno pure nel sindacato, d’altra parte. Arrivando alla festa di Leu, il premier stesso ha tenuto a ricordare di aver accettato l’invito a partecipare quando ancora era premier giallo-verde. Adesso comunque il giro non è finito.

A metà ottobre Conte sarà ad Avellino, per celebrare il centenario dell’irpino Fiorentino Sullo, democristiano, cinque volte ministro, sette volte sottosegretario, otto volte deputato. Il che chiuderebbe il cerchio: dopo i post comunisti, e i post missini, ecco i post democristiani. Precisa però con soddisfazione il presidente della Fondazione Sullo, Gianfranco Rotondi, che Conte era previsto come relatore già da un anno e mezzo. Cioè, a occhio, da prima di diventare premier. Il che rende il quadro ancora più compiuto, se possibile.

L’ESPRESSO

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