Rousseau, la paura del voto sui dem

di Alessandro Trocino

ROMA «Tassativo, come ha sempre detto Luigi: mai con il partito di Bibbiano. Ma perché non consultate noi elettori?». L’appello, proprio sotto un post di Luigi di Maio, prende una valanga di like e dà il segno del clima. Votare, in teoria, non è mai un male. È la democrazia. Ma le cose non sono così semplici. E soprattutto nel caso dei 5 Stelle, il voto su Rousseau è evocato, attivato e modulato con tempi e modalità diverse a seconda dei risultati attesi dai vertici. Ora nel Movimento è in corso una battaglia feroce per decidere se la nuova potenziale alleanza con il Pd debba finire o meno al vaglio della rete e se debba finirci anche il nome del premier.

Il precedente

Il precedente che spingerebbe a tornare al voto c’è. È il 18 maggio 2018 quando la base dà il via libera all’alleanza con la Lega, approvando il contratto di governo con una maggioranza schiacciante di sì: il 94 per cento. Allora, però, il voto fu preceduto da un lungo lavoro di cesello sul contratto, il patto fondativo dell’accordo e nessuno dubitava che ci sarebbe stato un sì. Più che una consultazione fu un plebiscito. E spesso Rousseau è stato usato in questa logica. L’ultima il 30 maggio, quando Di Maio, dopo la sconfitta alle Europee, chiese al popolo 5 Stelle un giudizio sul suo operato con quella che nei tribunali si chiama domanda suggestiva (nel senso che suggerisce la risposta): «Confermi Luigi Di Maio come capo politico del Movimento 5 Stelle?». L’80 per cento disse sì. Altre vote le domande sono state più volutamente confuse. Come al voto sul processo a Matteo Salvini. Si votava sì per salvare Matteo Salvini dal processo. No per concedere l’autorizzazione a procedere. Persino Beppe Grillo ironizzò: «Se voti sì vuol dire no. Se voti no vuol dire sì. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste».

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