Governo Conte, così (tra diffidenze e minacce) Di Maio e Salvini sono arrivati all’accordo finale

La lista dei ministri|I volti

ROMA «Altro che cerino, volevano lasciarci con la torcia in mano». Un leghista di rango racconta le ore precedenti il grande accordo, condite da mille colpi di scena, diffidenze reciproche e tatticismi esasperati. Ma il punto di svolta arriva mercoledì sera, quando Luigi Di Maio mette a punto con il Quirinale la formula: spostamento di Paolo Savona dall’Economia agli Affari europei. Matteo Salvini decide che il tempo dei no è durato abbastanza, con oltretutto il rischio di nuove turbolenze dei mercati.

La trattativa con Fdi
E così, torna a Roma. L’idea di massima deve essere perfezionata e la giornata trascorre nel faccia a faccia tra i due leader e nell’interlocuzione continua con il Colle. Occorre anche non urtare la suscettibilità di Paolo Savona, che però si mostra disponibile: il nome di Giovanni Tria sarebbe stato fatto negli ultimi giorni proprio dall’economista sardo.

Poi, la partita a due si allarga e coinvolge anche Giorgia Meloni. Salvini — che in prima battuta la vede da solo — non vede affatto male un diretto coinvolgimento dei Fratelli d’Italia nel governo in gestazione. Vorrebbe dire che è un esecutivo in cui il centrodestra c’è, e chi manca è il solo Silvio Berlusconi.Ma per Luigi Di Maio è l’esatto contrario. La presenza della Meloni rischia di spostare troppo a destra la fisionomia del «governo del cambiamento» e aprirebbe seri problemi all’interno del Movimento, oltre a complicare il puzzle dei ministeri. Anche perché, raccontano sia in Lega che nel Movimento, l’idea originaria era che Guido Crosetto potesse andare — benvisto da entrambi i partiti e anche dal Colle — alla Difesa. Ma Meloni avrebbe sostenuto che in un governo in cui sono presenti i leader degli altri partiti, lei non avrebbe potuto essere esclusa. Insomma, il conto per l’appoggio di FdI sarebbe stato non di uno ma di due dicasteri. Risultato: Di Maio dice no e i Fratelli d’Italia si limitano a garantire soltanto un appoggio esterno. Il che, dai leghisti, è comunque considerato un buon risultato.

I sondaggi e la minaccia
La mattinata era cominciata con un Movimento agguerrito. Di Maio si porta in tasca alcuni sondaggi, realizzati da Euromedia e Piepoli per «Porta a Porta», che vedono in crescita il Movimento, arrivato rispettivamente a 43 e 41%, contro il 37,6 e 35 del centrodestra. Sono dati che confortano, visto che negli ultimi giorni si era registrato un boom della Lega e un calo M5S. E fanno capire al Movimento che forse si possono usare come arma di trattativa. Di Maio si prepara il discorso: «Matteo, se non ti va bene, se non ci state a fare il governo con noi, siamo pronti ad andare al voto anche subito, a luglio». Con il Pd che già lo dice e i 5 stelle che lo ribadiscono, la prospettiva di essere indicato come l’uomo che per la prima volta nella storia repubblicana ha portato gli italiani al voto in piena estate, non alletta per nulla Matteo Salvini.

La quadra sui ministri
Ma non serve spianare la pistola, perché la trattativa riprende quota. Risolta la questione Savona, si decide di assegnare gli Esteri a Enzo Moavero Milanesi, non particolarmente gradito ai 5 Stelle. Che però piazzano una pedina importante alle Infrastrutture e Trasporti: il fedelissimo Danilo Toninelli scalza Enzo Coltorti, ambientalista duro e puro, scatenato contro il Colle e poco controllabile. Sono soltanto dettagli prima delle poche parole che annunciano la fine del travaglio: «Ci sono tutte le condizioni per un governo politico».

Le prime iniziative
Poi, i due leader prendono strade diverse. Di Maio dedica il governo a Gianroberto Casaleggio e si mette al lavoro sui primi provvedimenti per il duplice ministero. Matteo Salvini, riprende la via della Valtellina. E a Bormio appare tutto concentrato sul Viminale: «Ci stavo già lavorando, i provvedimenti a cui penso sono quelli per evitare gli sbarchi e accelerare le pratiche di riconoscimento». Ma a Salvini piace anche il tema «iniziato da Roberto Maroni sui beni sequestrati alla mafia. Mi piacerebbe metterli a reddito in modo da dimostrare che sono amministrati molto meglio dallo Stato che dalla mafia». E vuole annunciare subito la sua «totale vicinanza agli uomini delle forze dell’ordine ma anche l’ascolto e il confronto con i sindaci».

CORRIERE.IT

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